31.7.11

delirio di una domenica sera

In principio fu Twitter.
Un breve messaggio. Poche essenziali parole che franarono attraverso i display di tutto il mondo, come petali in balia del vento burbero d'aprile.

Poi le prime agenzie. Gli stati su Facebook che iniziavano a cambiare, le trasmissioni interrotte alla tv, i forum, i blog, i siti dei giornali.

La notizia sanguinava da ogni bocca, talmente dolorosa da bloccarsi negli interstizi dietro l'ugola, forzando il vomito, costringendo a deglutire i respiri. Viaggiava.
Percorreva i solchi delle lacrime sui visi, risaliva i fiumi di vene gonfie, logore. Si affidava alle correnti delle urla, dei pianti, delle imprecazioni.

A volte si bloccava un istante. Adagiandosi nel morbido riparo in un dubbio,  consolatoria illusione.
Poi giù. A ricordarsi che, in fondo, non era una notizia sola ma addirittura due.
Crudeltà gemelle, anelli cigolanti di una soffocante catena che nessuno aveva la forza di reggere.

Dio era morto.
Poche sillabe a contenere quell'insostenibile immensità. Dio era esistito.

E in quegli istanti orrendamente dilatati, non si riuscì davvero a percepire cosa risultasse più tragico in quella rivelazione. Se fosse più disturbante l'esile consapevolezza di un'occasione mancata, o l'amara certezza di una perdita irrecuperabile.

Ci fu un momento. Il battito d'ali di una farfalla, un fremito impercettibile in cui l'intero pianeta si zittì.
Chi piangeva sussultò in quell'istante preciso, chi urlava prese fiato, chi sorrideva si morse le labbra, tutti all'unisono.

Fu l'ultimo attimo di lucidità.
Lo scalino su cui inciampò la follia collettiva.

E ci fu chi disse che non avrebbe mai voluto sapere.

Dio è morto, avevamo ragione.
Dio c'era, avevamo ragione.
Non era il vostro, non il tuo, noi, noi avevamo ragione.

Finché la ragione si perse...nuovamente.

Corrispondenze 2


29.7.11

Dylan Dog 299 - ovvero una disaffezionata clientela

Allora, Brad  Pitt e Morgan Freeman sono due detective. Il primo è un giovanotto inesperto, il secondo sta per andare in pensione.
Kevin Spacey invece è un maniaco religioso che si fa chiamare John Doe.
In pratica Kevin Spacey entra dentro gli appartamenti della gente peccaminosa e gli scrive sul muro con la Replay il peccato di cui ognuno è devoto.
La gente arriva a casa, s'incazza, chiama la polizia e Brad e Morgan accorrono. Kevin sbuca fuori e scrive 'Ira' sulla fronte di Brad, poi viene arrestato.

Fa schifo vero?

Sono i cattivi che fanno la storia.

Gli eroi poi arrivano, sistemano le cose, si fanno belli di fronte all'opinione pubblica, rilasciano le interviste e assurgono al ruolo di protagonisti di una vicenda che senza il villain di turno non sarebbe mai esistita.
Comodo vero?

Com'è che diceva il Dr. Nekhorvich in Mission Impossible 2?
"Sai Dimitri, quando si cerca un eroe, bisogna partire dalla cosa di cui ogni eroe ha bisogno: un cattivo. Per questo, cercando il nostro eroe Bellerofonte, abbiamo creato un mostro: Chimera."

Ecco, il problema di questo Dylan Dog è che dall'altra parte non c'è nessuno da combattere.
La Chimera è una chimera.
Nessuno da odiare, nessuno di cui stupirsi, nessuna malvagità assoluta per cui indignarsi, spaventarsi, appassionarsi.

C'è Riccucci che sfratta i poveri vecchietti e assolda un branco di balordi per fare le cose brutte e rompere le vetrine del negozio di Bersani.
Siam mica qui a dare la piadina ai fantasmi!
Che il soggetto alla fine sarebbe anche onesto, niente per cui entusiasmarsi, ma onesto.
E non serve invocare lo splatter, i morti ammazzati, il sangue a secchiate e gli occhi risucchiati col Folletto.
Ma un po' di sana cattiveria quella sì.

Quel poco che basta per far sembrare il nostro Dyd/Bellerofonte una parvenza di eroe/antieroe/buono che salva tutti alla Dylan Dog.
Eppure anche stavolta si è persa l'occasione di portarla a casa...
Dai, dai, dai...
I disegni di Cossu sono i disegni di Cossu. Da sempre.
E di suo andrebbe anche bene così.
Ma se ci fosse qualcosa di interessante da rappresentare, sicuramente renderebbero di più.

Che altro dire?
La sequenza degli ultimi numeri contribuirà senz'altro a far sembrare il numero 300 un capolavoro.
Magari lo sarà davvero, chi lo sa?

Ma la verità (perlomeno la mia) è che questa linea redazionale sta solamente contribuendo a far desistere anche i lettori più accaniti.
Parecchi son lì che si dicono "compro il 300 e poi smetto!".

Una disaffezionata clientela.

E Dylan Dog che dice?


Contento lui...

Tochipirina







27.7.11

Facecook: l'angolo cottura del mercoledì 7

Venerdì c'era in ballo una cosa che riguardava indiani e cow-boy.
C'era.
Ma il tempo, oltre a essere tiranno, è anche instabile e capriccioso e luglio è diventato il nuovo ottobre.

Quindi, dopo aver raccolto la legna per il camino, sgusciato le castagne e mescolato per bene il paiolo di polenta infasolà, mi sono  mezzo di buzzo buono a intagliare la mia zucca per Halloween.

E mentre ero immerso nei miei pensieri da novello Lucien, mi ha assalito un'illuminazione: io la mia cena indiana la volevo comunque.

Quindi mi affido alla mia famigerata memoria enciclopedica per riportare alla mente tutti i piatti indiani che in questi anni ho avuto modo di degustare

E a pensarci e ripensarci non mi viene in mente niente.
Quindi chiamo un mio amico che di queste cose ne sa e gli pongo la domanda: ma il piatto tipico degli indiani qual è? Niente!
Poi ho scritto qual'è con l'apostrofo e ha capito, che lui è uno che va su facebook.

Pollo al curry! Ha risposto prontamente.

E sia.

Il pollo al curry è una pietanza molto versatile che si abbina in variegati modi e che può essere realizzata secondo varie ricette.

Quelle più rinomate sono:

Pollo al Carrie 1: in questa particolare preparazione il pollo viene affettato con dei coltelli volanti e crocefisso sul piatto

 
Il pollo brucia all'inferno

Pollo al Cherry: il trucco per non appesantire questo piatto è quello di somministrare lo Cherry quotidianamente al pollo per circa sei settimane (zabaioni ottimi se si usa lo stesso trucco con le galline)
Mon cherry

Pollo al Carrie 2: si prepara allo stesso modo del precedente solo che serve anche una bottiglia di Martini.In questa versione il pollo non muore ma accompagna le quattro tardone niuiorchesi nel locale più in di Manhattan (che con gli indiani c'entra cercate su Wikipedia).

Finché non faccio il lifting la mano la tengo così!
Che goliardia! Che risate!

Passiamo alla ricetta vera che il tempo, come si diceva poco fa, oltre a essere tiranno tende a stringere (a me stringe qui sui fianchi, magari aggiustando un po' qui...)

Ci serve:
- del pollo tagliato a dadini (per i vegetariani delle melanzane o del seitan)
- un paio di zucchine
- due o tre carote
- un peperone verde
- mezza mela
- del curry
- dell'altro curry che si tende sempre a metterne poco
- dello yogurt greco o della panna vegetale

Si taglino le carote e le zucchine a rondelle, il peperone e la mela a quadrelle, nel mentre lasciamo rosolare in padella il pollo/melanzane/seitan con dell'olio d'oliva e un soffritto di cipolla e aglio.
Dopo un po' mettiamoci anche mezzo bicchiere d'acqua/vino (se siete Gesù scegliete pure all'ultimo).

Passati 5 minuti aggiungiamoci anche le verdure/frutta (falsa frutta, precisini).
Spolveriamoli con un paio di cucchiai di curry e lasciamo tutto lì, abbandonati al proprio destino di pietanza che si sta lentamente cuocendo, con i sapori che si amalgamano silenziosi, sfrigolando di meraviglia e bontà.

Invece del sale proviamo a metterci del miso e della salsa di soia.

Nel frattempo, anche se prima non l'ho detto, abbiamo fatto bollire un pentolino d'acqua salata e abbiamo iniziato a cuocere il riso venere.

Ora arriva il momento topico. 
Abbassiamo la fiamma e iniziamo ad aggiungere lo yogurt/panna.
Il rischio che corriamo è quello di farlo asciugare troppo e rovinare la salsina, rendendola un grumo informe che si attacca ai tocchetti di pollo/melanzane/seitan come M&M's ai guanti di Topper Harley.
Quindi assicuriamoci che il pollo non sia troppo asciutto, al limite aggiungiamoci un po' d'acqua prima.

Nel durante di questa operazione rovesciamo accidentalmente anche un altro cucchiaio di curry che ci sta di sicuro. (facciamo anche un paio che tanto prima siamo stati certamente avari di questa miscela di spezie, che poi si chiama masala e nessuno lo dice).

Spegniamo tutto e serviamo col riso precedentemente scolato.
Scoliamo anche lo Cherry precedetemente visto.

Salute!

Come sempre il giudizio dei nostri ospiti di stasera:
Divino!

Meehehe!
Che Dio mi fulmini se questo non è un pollo a rischio di default!

Ok la non violenza, ma il pollo mica posso mangiarlo vivo!





Corrispondenze 1

John Doe n. 10 - ovvero una quiete inquietante

 [Avvertenze-Sta per iniziare una lunga inutile introduzione: per risparmiarsela far scorrere la pagina fino a quando la nebbia vi indicherà che siamo in zona recensione]

Qualche giorno fa stavo chiedendo cosa avessero ancora da dare i fumetti al mondo di oggi..

Cioè, perché dovremmo ritenerlo ancora uno strumento valido per raccontare delle storie?
In fin dei conti, con le tecnologie in uso, un film ormai può mostrarci in modo realistico qualunque parto, anche il più astruso, della nostra immaginazione.

Quella rappresentazione che, fino a qualche anno fa, sarebbe risultata ridicola e impacciata, a oggi è diventata talmente perfetta da rendere addirittura faticoso distinguere ciò che è vero da ciò che è artificioso.

Un tempo certe storie potevano soltanto essere immaginate.
Immaginate e disegnate.

Oggi no.

E allora perché?
Perché un fumetto che ci mostra due giganti, un uomo e un robot, che combattono tra i palazzi di una città, con gli omini spaventati che fuggono schivando le macchine scagliate dai due, vale la pena di essere letto?
Perché non sarebbe meglio un film?
Insomma, alla fine sono passati i tempi dei pupazzoni con la cerniera dietro...

E perché leggere una storia così?
Una bella storia in cui il protagonista interagisce con gli autori? 
Uscendo dallo schermo della tv, del pc, sbucando soffocante dai fogli dattiloscritti, dal fax, oppure insinuandosi solamente tra i pensieri di chi lo immagina, possedendo chi gli dà vita e diventando esso stesso il suo creatore, in un effetto Droste talmente ubriacante da coinvolgere anche il lettore oltre che i due succitati attori?
eh?
In effetti lo hanno già fatto no? 
Sì che l'hanno già fatto!
Film, cartoni animati, opere teatrali… 
Cosa potranno mai aggiungere quelle pagine di carta disegnata a tutto ciò?

Non me la sono mica dato una risposta, ma un pensiero l’ho avuto.
C’è un’intimità nascosta nella lettura di un fumetto che non riesco a scovare nelle altre forme di espressione, chiamiamole non-immaginifiche (il senso è che un libro lo leggi e immagini, un fumetto o un film li guardi e qualcuno ha immaginato per te) [ci sarà sicuramente un nome ma mentre sto scrivendo sono in macchina e non ho un collegamento, e quindi va bene così].

Quelle due ali aperte di fronte agli occhi sono il paravento che ti nasconde da tutto il resto del mondo. Lì dietro sei solo tu.
Le tue impressioni, i tuoi pensieri, le tue perplessità.

Perché un fumetto si legge in solitaria. E in quel silenzio tu guardi loro e loro guardano te.

Sì, lo so. Anche un film posso guardarmelo da solo.
Ma c’è quell’assenza di contatto, quella mancanza di fisicità che sterilizza la trasmissione di un certo tipo di informazioni emozionali.

L‘ho detto, è solo un pensiero. Ma ci sono delle occasioni in cui un fumetto riesce a sfondare le pareti della fiducia e, mentre abbassi  la guardia, ti restituisce come dei cazzotti le emozioni che non gli avevi affidato.
E' in quel momento che ti rendi conto che non esiste un altro metodo per darti quella sensazione.
L'unicità si nasconde in ciò che ti toglie più ancora che in quel che ti dà.

Nebbia! Da qui parte la recensione...(qualcuno potrebbe trovare alcune affermazioni degli spoiler)
Mentre leggevo questo John Doe numero 10 ( 88 della vecchia datazione) ammetto che ho avuto un momento di sconforto.
Sfogliavo le pagine e pensavo: no, ancora, di nuovo, e le alte sfere e le donne che non ha rispettato e quanti amori amori buttati e che inetto che sei John e combatto che sono Dio e sono il più forte e ho inventato tutto io e io so' John Doe e non me dovete cacà er cazzo che anche se sembra che me l'hanno messa in culo poi so' io che gliela metto che il Golden Boy cade e se rialza e ricade e se rialza. 
Insomma, pur con l'ansia di saper dove mi volesse portare il buon Bartoli, la sensazione era quella di un altro numero che si stava appiattendo sotto il peso di sé stesso.

Tra l'altro, i disegni di Luca Genovese (che, sia ben chiaro, ho sempre ammirato) pur essendo incisivi e di carattere, erano così sporchi da rendere difficile la lettura complessiva delle varie tavole. 
Per i miei gusti avrei preferito un tratto più pulito, ben definito, così da permettere di apprezzare al meglio la parte del combattimento, l'epica battaglia tra uomo e macchina, imputato e giudice, potere e ribellione.
Comunque, tutto scorre lungo al fiume della perplessità, fino a qui
Pagina 80.
Che per quanto bella è, per me, poteva finire anche lì l'albo.

Invece l'albo continua.
Finalmente gli autori si mettono in gioco, Lorenzo sanguina sé stesso su ogni vignetta, ogni dialogo. I disegni sono perfetti. Ruvidi ed essenziali.
E John è finemente crudele.

Chi scrive entra nuovamente in contatto con il mondo immaginato, e lo fa suo malgrado. 
Perchè la forza che scorre attraverso le pagine non è più quella dello scrittore, non è più suo l'impeto che dona vita alla storia. No.
Ormai chi scrive è vittima della potenza del personaggio, pedina svuotata di ogni velleità artistica perché corrotta dalla volontà strabordande della propria creatura.
Bartoli si spersonalizza, regala la parte più dolorosa di sé al percorso di John, si oppone magari, ma soccombe. Si arrende alla burrascosa incontrollabilità di un Dio risorto dalle ceneri di chi l'ha creato.

E ora è il personaggio che usa l'artista e non il contrario. E John è più puttana di Madame Bovary.

La calma e il distacco con cui tutto ciò viene raccontato, la potenza di una tale rivelazione, l'apparente quiete che permea dalle pagine, dagli sguardi in camera dei protagonisti: l'ho trovata inquietante.
Come se davvero tutto sia sfuggito di mano, come se dovessimo davvero affidarci all'esuberante rabbia di un Dio senza controllo per poter raggiungere la pace della fine.

Ho detto qualche giorno fa che mi fa piacere che John Doe si avvii alla conclusione.
E' sempre più vero, in qualunque modo lo stesso John abbia deciso di dover finire la serie.

La verità è che, da quando è iniziata la nuova stagione, questa è la prima volta che voltando l'ultima pagina ho mentalmente assaporato il momento in cui avrei avuto il tempo di rileggere l'albo.

Ora John è cattivo. Lo era anche prima ma ora lo è di più.
Sono in macchina.
L'auto parcheggiata di fronte a me è targata 'BAD', guardo verso l'alto, mi aspetto di vederlo arrivare.
Feroce.

E m'inquieto.






26.7.11

Cobra nella nebbia


Ancora nebbia.
Nessuna voglia di scrivere e un mal di testa di quelli bastardi, di quelli che s'infilano dietro agli occhi e filtrano tutto ciò che vedi, lo distorcono, lo fanno loro ancor prima che tuo.

L'ultimo compito del corso, la scaletta, quella dell'albero, l'ho fatto e spedito. Mediamente soddisfatto di quel che n'è uscito.
Che significa che per metà sono decisamente insoddisfatto, ma non avevo voglia di scrivere niente e penso che ogni riga si sia impregnata di quell'indolenza.

Attendo la correzione, neanche troppo frementemente.

Che poi, io la mia correzione definitiva l'ho già avuta.
Eravamo tipo alla lezione numero 9, dovevamo strutturare una storia descrivendone scenari e personaggi. Il docente della lezione, di cui manterrò l'anonimato menzionando solo in nickname RRobe, come commento al mio esercizio mi disse (e qui inizio a citare testualmente):
"L'idea è semplicemente geniale. Il carattere dei personaggi, pure. Se decidi di svilupparla, dimmelo e ti aiuterò in ogni maniera. Complimenti." 
Che, arrivato al "semplicemente", pensavo  continuasse con "semplicemente una merda!", e invece...


Comunque vabbè, non sono uno che si vanta. (Se volete una maglietta con quella scritta ditemelo, ché ne ho fatte stampare più o meno 500 e gli scatoloni cominciano a dare fastidio).


Io però non volevo dire questo. Anzi non volevo dire niente che oggi, come ieri, non ho voglia di scrivere.
E quando non ho voglia di scrivere faccio altro.


Ieri per esempio ho comprato un serpente alle micie.
Un cobra, di quelli da mangusta e Indiana Jones.

Perché?

Continuate a leggere questo blog perché un giorno ve lo dirò.


Bogotà (post che avrei dovuto scrivere il 07.10.2003)



Il cielo di Bogotà è plumbeo: denso di piombo e perennemente incerto. Minaccia pioggia e smog costantemente, e se a volte la pioggia ci risparmia lo smog si aggrappa ai polmoni come una fucilata di pallini di piombo in pieno petto.

Dall’aeroporto percorriamo la calle 59, oppure era la 63 o magari la 79, superiamo tubi di scappamento temporaleschi, cumulonembi di benzene e anidride carbonica, soffocanti ciminiere ruotate in soffocanti incroci di strade numerate. Sbuchiamo sulla calle 80, incontriamo Padre Maurizio che ci saluta e scappa, fiancheggiamo l’autovia de Medellin e al di là del ponte si apre l’esile skyline del barrio Lisboa.

Ci accoglie randagio come i cani che lo ospitano o che ospita: occhi polverosi che ti guardano dalle terrazze incompiute, zampettano sculettanti rasentando i muri di mattoni rossi, voltando le teste ballonzolanti verso le corriere che sfrecciano sulle vie terrose e crude. 

La biblioteca nuova: un sogno dal profumo vellutato di cemento: rumore. 

Rumore di fondo interminato e interminabile … cani che abbaiano la loro affollata solitudine, e gente cigolante che si affaccia ai negozi semichiusi, semivuoti, e i vigilantes che fischiano la paura di trovarsi di fronte a un reato: come se il più grande reato non fosse già di fronte a tutti quelli che si sporgono dai confini del barrio Tutta questa miseria, queste facce emaciate, smorte ma sorridenti, questa fame che lacrima dagli occhi; questo è un crimine tremendo, reiterato, ubiquo e probabilmente impunibile.

Il fischietto del vigilante tace un attimo, poi riprende: aspro, acido, fastidioso, a ricordarmi che questo è il Barrio Lisboa, questa è la Colombia, questo è il mondo che vive al di là dei nostri occhi chiusi.


25.7.11

Insalate di matematica


                                                                              +
                                                                              =


Che tra l'altro il nome Goldrake mica si sa precisamente da dove sia saltato fuori.

Il nome originale della serie è UFO Robot Grendizer. E il perché da Grendizer si sia arrivati a Goldrake non si sa.

Risaputo, invece, è il motivo per cui in Italia la serie si chiama Atlas Ufo Robot.
Quando la RAI l'acquistò dalla tv francese Antenne 2 (che aveva l'esclusiva per l'Europa), fu consegnata anche la scheda illustrativa che in francese veniva chiamata 'atlas' (atlante).
Quindi, la dicitura sopra la scheda "Atlas Ufo Robot" fu scambiato per il nome originale della serie e utilizzato quindi nel titolo in italiano.

Del pulsante magico che lo trasforma in ipergalattico meglio non sapere, invece.

Madeleine

Oggi non scrivo.

Avrei la recensione dell'ultimo almanacco della fantascienza da postare, un facecook di qualche tempo fa, una descrizione di Bogotà, una poesia di Montale, un discorso sul senso del fumetto nel 2011, una cosa che mi era venuta in mente e già non mi ricordo più, un'idea sull'analisi di alcune canzoni, un giochino con delle sciarade, un rebus che mi è venuto in mente adesso mentre scrivevo "sciarade"... Fermi!

Catena di pensieri che si è sviluppata in quest'istante mentre scrivevo:
- "Sciarada": Dylan Dog 191
- "l'ascia lascia la scia" da Dylan Dog 26 "Dopo Mezzanotte"
- l'ascia che apre in due la testa di Groucho nella storia "Gnut" che avevo nel diario di terza superiore
- le poesie che scrivevo su quel diario
- arrivare a scuola con la prima corriera, le aule vuote, l'odore di detergente, nascondere ogni giorno un biglietto sotto il banco di quella ragazza che ti piaceva proprio tanto
- gli occhi di lei quando ti raccontava questa cosa e ti chiedeva se avevi visto qualcuno entrare
- il karate
- il dogi bianco da strattonare
- judo boy
- il cappello di Ken, il ragazzino amico di Sanshiro
- il tuo cappello, che hai perso e che ti ricordava diverse cose
- la nebbia fredda che ti conduce in un mondo irreale, e parli e ti accorgi che ce l'hai anche dentro
- la tua camicia rossa che d'inverno ti mettevi sempre senza niente sotto
- l'occhio nero che avevi un giorno che indossavi quella camicia e ti sei messo i capelli davanti che ti sembrava facesse così poeta maledetto
- quelle sere in cui c'era sempre qualcuno da ascoltare, e tu che pur di non vivere aiutavi gli altri a farlo
- il suo sorriso nel buio, quella volta che vi siete rivisti dopo non so quanti anni
- l'odore di borotalco

Si sono accavallate frenetiche, staffetta malinconica che scivola lungo la gola.
E' stato un breve istante. Breve.

Ora basta.
Oggi non scrivo.

24.7.11

The Secret n. 5 - ovvero è un mistero solo per chi non ci crede


Anche se non sembra, prima di esprimere il mio parere su qualcosa cerco di informarmi.
Quando si tratta di fumetti, oltre a leggerli, provo a guardare in giro se gli autori ne parlano, tento di capire il loro punto di vista sulla storia, valuto se quel che dichiarano di voler trasmettere sia effettivamente quello che mi è arrivato.

Non lo faccio sempre, mica sono uno di quegli invasati che devono sapere tutto. Ma capita.

Per fare ciò navigo l'internet, entro nei siti degli autori, leggo qua e là cosa ne pensa la gente, addirittura mi addentro nella giungla dei forum.

I forum dove la gente discute dei fumetti sono dei luoghi bui in cui cinquantenni si insultano pesantemente con quindicenni per convincersi a vicenda che Corto Maltese è meglio di Tex o che il fumetto si fa in un modo e non in un altro e che una cosa fa cagare a prescindere e tu non capisci un cazzo e non può essere tutto soggettivo che ci sono dei parametri oggettivi con cui valutare e quelli non si discutono e che se non hai le capacità per renderti conto delle stronzate che dici allora ti meriti di morire per l'implosione del tuo cervello dimmerda.
E tra l'altro se non scrivi pò e qual'è ti bannano a vita. Almeno così sembrerebbe.

Comunque, capito sul blog di The Secret e leggo:
"The Secret piace tantissimo a chi è interessato al complottismo e invece viene bistrattato dalle belle testoline cicappiane di chi è convinto che il mondo sia limpido e che non esistano alieni, cospirazioni, profezie etc. Con le scie chimiche abbiamo davvero "rotto" i lettori... c'è chi ci osanna e chi ci biasima.
Meglio. The Secret non vuole essere un fumetto per tutti."


Mi chiedo se sia davvero l'approccio migliore per un'opera che, teoricamente, dovrebbe puntare all'essere venduta.
Cioè, io ho sempre letto Dylan Dog anche se la mia testolina cicappiana non ha mai pensato che esistessero davvero vampiri, lupi mannari e Mana Cerace. Si chiama sospensione dell'incredulità ed è alla base di tutte le opere di fantasia.

Escludere a priori e deliberatamente una fascia di lettori è, nel migliore dei casi, stupido. Nel peggiore dei casi, invece, potrebbe sembrare soltanto la reazione stantia al fatto di non essere stati in grado di creare una storia capace di appassionare un pubblico più vasto.
Che poi non è un'accusa. Ogni serie è anche frutto del modo in cui viene venduta, e per queste miniserie, che nascono già senza possibilità di sbocco in una serie regolare, l'imperativo è quella di accalappiare nell'immediato una fetta di pubblico fedele e interessato e portarselo dietro fino alla fine, senza stare troppo a pensare a che modifiche approntare per allargare la platea, anche perché di tempo non ce n'è!

E non voglio dire che le storie di genere non siano di per sé selettive, se odio il western è ovvio che non leggerò Tex, ma a mio avviso il valore aggiunto a cui un fumetto dovrebbe tendere è proprio quello di educare il lettore a una certa tipologie di storie. Rendere appassionanti anche argomenti che non sono mai stati nell'interesse di una persona, condurla alla scoperta dei propri gusti, magari addomesticarli, mutarli, esaltare alcune preferenze nascoste che banalmente non si erano mai manifestate, trovare la via meno traumatica per fare assaggiare un nuovo sapore, magari quel sapore che non credevi ti potesse piacere.

Non sono così convinto, insomma, che l'autore di un'opera di fantasia debba obbligatoriamente credere a ciò che scrive, anzi, il suo talento dovrebbe essere quello di rendere credibile l'incredibile, non tanto di descrivere in un reportage quella che secondo lui è la provata realtà.

Che poi parliamo di quei fumetti lì, quelli da edicola con le 94 pagine e la copertina neanche tanto rigida, di quel bianco e nero ruvido e così rassicurante.

Visto in quest'ottica, comunque, The Secret è un fumetto per complottisti fatto da complottisti.
Un prodotto che si autolimita, tira il freno quando invece dovrebbe accelerare, e lo fa appesantendosi per la smania di buttare dentro tutto.
L'impressione è che lo sforzo fatto sia quello di voler inserire nella trama qualunque argomento possa essere stato trattato in una puntata di Voyager o Mistero, dalle scie chimiche al 2012, dall'11 settembre a speriamo non il chupacabra.

Dopo questo logorroico preambolo, veniamo al dunque.
The Secret si sta rivelando una piacevole lettura, incanalandosi in quel genere di misteri misteriosi parte da X-Files e arriva a Fringe lambendo le coste dell'isola di Lost.
L'incredulo Adam Mack, impersonato dal fratello di Voldemort Joseph Fiennes, prosegue il suo percorso
Quello di The Darwin Awards
verso l'ignoto. Voci interiori, piani mistici, un circo spaziale, rapimenti alieni, un prete rasta, il carlino di Man in Black, i Maya. Insomma, mettiamoci dentro di tutto che tanto fra qualche numero finiamo.

Comunque la lettura è sempre scorrevole, mai pesante, mai troppi spiegoni, personaggi ben caratterizzati. E di questi tempi questo è già un ottimo risultato!

Attendiamo il prossimo.

Ah, le copertine proprio non mi piacciono. Potrei anche spiegare perché, ma in realtà sono solo gusti miei.

23.7.11

SponTex

Tutto questo per dire che per venerdì devo procurarmi un cappello da cow-boy!

22.7.11

Competenze


Non posso fare a meno di pensare a quegli stronzi che, mentre le persone più competenti di tutta Google risolvevano celermente e competentemente il mio problema, se ne stavano lì ad aspettare che persone di sicuro meno competenti cercassero di capire qualcosa dei loro errori.

Oggi mi sento fortunato e coccolato.

Grazie signor Blogger.

Fermate il mondo, voglio scrivere!


L'avevo detto qui.

Il corso di fumetto continua e per farlo continuare  occorre pensare a una rivisitazione della fiaba di "Jack e la pianta di fagioli".

La domanda diventa quindi: cosa succederebbe se un albero dalle origini sconosciute iniziasse a crescere a dismisura allargandosi sulla superficie terrestre e innalzandosi fino a oltrepassare l'atmosfera? E cosa succederebbe se non ci fosse modo di abbatterlo e il suo peso, abbinato all'effetto leva, arrivasse a compensare la spinta della rotazione, prima rallentando e poi bloccando definitivamente il movimento del nostro pianeta intorno al suo asse?

Per ottenere una risposta a queste domande ho dovuto interrogare i massimi esperti mondiali in materia, esaminare gli studi e le proiezioni fatte dalle migliori università, programmare complicatissimi  software di simulazione, effettuare addirittura degli esperimenti su modellini in stazioni orbitanti in assenza di gravità.

E' stato un lavoraccio lo ammetto


Quel che dirò comunque non me lo inventerò, avrei voluto lo giuro ché mi sono venute in mente delle cose fantasiosissime, ma l'ho preso più o meno da uno studio dell'Esri.

(però la Terra che collassa e si scontra con la luna entrando nell'orbita gravitazionale di Marte e schiantandosi anche lì, formando un pianeta a forma di duplo... cazzo, era una bella idea!)



Tutto questo girare della Terra, innanzitutto, ha provocato che il nostro pianeta non è effettivamente quella bella sfera che si vede in Google Earth, ma anzi è tutta bruttarella e schiacciata sui poli come se fosse stata calciata da Holliebengi.

E' proprio la forza centrifuga che la schiaccia e che tiene belli fermi gli oceani dove sono.
Fermare la Terra proprio oggi significherebbe innanzitutto che l'acqua degli oceani confluirebbe dove la forza di gravità è maggiore, e quindi ai poli. Sommergendo le zone continentali al di fuori della fascia equatoriale e lasciando libera l'enorme fascia centrale.

Nel mentre il pianeta cercherebbe di ritornare sferico, le zolle si scontrerebbero, le croste si incrosterebbero, terremoti e tragedie, file in tangenziale e soprattutto si annullerebbe la forza di Coriolis, con conseguente involuzione nella circolazione delle correnti atmosferiche.

Cambiamenti climatici che amplificherebbero quelli già in atto, dovuti al fatto che essendo la Terra ferma sul proprio asse il giorno non durerebbe le canoniche 24 ore ma rasenterebbe l'anno,
provocando la crisi dell'industria delle valigette e con il fastidioso effetto di avere una faccia continuamente riscaldata e una sempre al buio.

Ripercussioni climatiche inimmaginabili ma decisamente catastrofiche.

Minchia, se non è l'apocalisse questa!

Detto ciò: vale la pena descrivere tutto questo in un fumetto, e magari cercare anche una soluzione che permetta di salvare la razza umana prima che quanto descritto ne comprometta inevitabilmente l'esistenza?

La risposta è sempre e comunque, sì!

Sarò capace di trovare un finale adatto, non smelenso, senza faciloneria, credibile e appassionante?
NO!
Vedremo...

21.7.11

Genova - vane ed eventuali (post che avrei dovuto scrivere il 25.07.2001)


Dov'ero ieri?

La notte mi si è rovesciata addosso come un secchio colmo di oblio.
Non so neanche se ho dormito davvero.

Una sconosciuta, una casa vuota, il velluto polveroso di un divano in cui affondare il viso.
Trattenendo l'irrealtà tra le dita come ali di farfalla.
Per paura. Paura di vederla fuggire o di sentirla restare.

Se non stringessi tra le mani questo libro, adesso, non avrei nessuno a raccontarmi che è successo davvero.
Solo il livido proporsi della mia memoria emozionale.
Sapori, suoni, colori, sinestesie.

Solo il rapido riviversi degli attimi. Fugace inseguirsi di quell'avvicendarsi d'anime.
I nutrimenti terrestri.

Ora non ricordo più, nuovamente non ricordo, se non quel libro.
La pagina bianca su cui la mia penna è inciampata.
La teneva lei.
La scrittura morbida, fragile come i suoi sorrisi.
Mi ha fatto tenerezza, lo ammetto. Eppure tutta la mia arrogante solitudine si è spaurita di fronte a quella deliziosa magia.

Fuggire.
Nel sole cocente del pomeriggio. Senza meta.
Fuggire da me attraverso l'essere l'esagerazione di me stesso. Crudelmente.

Lecce è muta questa mattina. Anche la tv è un silenzioso strepitio d'immagini confuse.
Un caleidoscopio sanguinante, volti stridenti, angoscianti incognite.

Li avevo visti quei ragazzi.Qualche giorno fa, quando sono partito da Roma.
Li avevo visti e li ho sfidati. Nella mia mente ho parlato con loro, dell'inutilità della piazza. Della vana illusione che la partecipazione trasmette, dell'esigenza di disilludersi, disingannarsi.

Ero lì. A cercare un treno da prendere a caso, come sempre.
E ho scelto la direzione contraria, non per quel motivo, non per ostinazione. Ma l'ho scelta.

Ora la mia direzione è la staticità dei pensieri di fronte al telegiornale.
Le bocche gementi che tracimano un dolore vermiglio, gli occhi svuotati, scavati d'incredulità e cazzotti.

E' colpa dei soliti penso. Lo penso forte. Come a voler convicermi delle mie stesse idee.
Perché non riesco ad accettare di essere spaventato da chi dovrebbe difendermi.
Da chi ho incaricato di decidere quali azioni vadano fatte per tutelare la mia incolumità.

Lo Stato.

Che la maggioranza di quelli che sono lì non abbia nemmeno la percezione di contro cosa stia protestando continua a girarmi in testa. Ieri l'ho scritto.
Deluso, quasi arrabbiato.


Un popolo, il popolo di Seattle.



E' colpa dei soliti. Lo ripenso.

Lo ripenso perchè in quella bolgia vociante d'intenti, l'atto criminale di un singolo riecheggia attraverso la cassa di risonanza della moltitudine.
E in quell'amalgamarsi si frantuma in particelle incontrollate, si sparge sulla folla ignara, rendendola a volte complice, a volte spaventata vittima.

E nel mucchio i poliziotti devono difendere. Lo Stato, i cittadini, la città, sé stessi.
Ci credo. Perché non tollero che l'istituzione che ho scelto per essere protetto in realtà mi offenda.
Atrocemente, deliberatamente, gaudentemente addirittura.

Ci credo perché se smettessi di crederci allora tutto perderebbe di significato.
Il sentimento verso lo Stato, il senso stesso di Stato.
Non amo le appartenenze, ma essere qui, in questi confini, con queste persone, è una scelta.
L'accetto perché è mia, e perché in questo istante non sopporterei la tragica definizione di fallimento.

Se non ci credo è fallito tutto. E mi ostino.
E non me ne frega un cazzo di Pasolini, non sto con i poliziotti. Sto con me stesso.
Ma in quegli sguardi afflitti, impauriti, violentati, io me stesso l'ho perso.

Nelle lacrime insanguinate, le teste sbattute sul muro, la folle processione di quelle anime macilente, perso.
E giustifico ancora, ma non ci credo più.

Magari sono pochi, magari solo qualcuno ha sbagliato. Eseguivano gli ordini.
Già.

Giro tra le mani il mio libro.
Respiro il fruscio delle pagine.

Respiro.

Non ho perso un istante, in questi giorni, a chiedermi se fosse giusto o sbagliato quel protestare.
Mi chiedo se sono giusto io.

Apro il libro a caso.
"Preferisco dirmi che ciò che non è, è ciò che non poteva essere" .

Silenziosamente, protesto.

Writers

Passati i tempi in cui Franco IV e Franco I scrivevano "t'amo" sulla sabbia, la moda dell'estate è fare le scritte che si vedono dal satellite.

Leggo su La Repubblica questa news.

In pratica uno sceicco ricco ricco ha speso 22 milioni di dollari per scrivere il suo nome sulla spiaggia, con caratteri talmente grandi da potersi vedere dallo spazio (e in Helvetica, la font preferita dagli alieni!)




Ventidue milioni per scrivere il proprio nome! Megalomane.
Per fortuna che non gliel'hanno scritto sbagliato.


Comunque, la mania si è già diffusa tra i vip. Ognuno vuol lasciare ai satelliti il proprio messaggio.
ARCORE
VILLA CERTOSA
PONTIDA
POLO NORD