Mi ricordo solo il buio della caduta.
Perché ho chiuso gli occhi neanche lo so, mi è sembrato quasi di voler assaporare quell'attimo in cui l'aria mi circondava completamente. Stavo volando e anche il respiro si è bloccato a mezz'aria, in un'attesa sacrale, quasi fosse al cospetto di un momento irrealizzabile.
Di nuovo quella voglia di andare oltre, la sorridente sicurezza della ripetizione, il sottile desiderio di mostrarsi.
D'altronde per quanti metri avevo già percorso quel muretto, le braccia larghe a inseguire un equilibrio di passi rapidi e scattosi? venti? forse trenta... Sì, perchè avevo già superato il cortile accarezzato dal vento pungente di questo ottobre lento, davanti a me avevo preso come riferimento la fila di salici che spoglia fuggiva verso una nebbia lontana. Una triste immobile processione a fare da punto di fuga della mia strada sospesa.
Pochi passi mancavano.
Poi il nero rumoroso del niente.
Cado. Prima sento che i piedi non trovano nulla su cui appoggiarsi, forse si toccano tra di loro, non so, ma cado. Ed è allora che chiudo gli occhi. Come se il mondo per un istante fosse solo il ruvido tonfo del cemento sullo zigomo.
Rumore e silenzio. Silenzio e rumore.
Piango ancor prima di sentirlo davvero il dolore. Lacrime a lavare l'onta della caduta, non dell'avventatezza ma del non essere stato capace di cadere come se si avesse voluto farlo.
Sento il sangue caldo che ricopre i sassolini che si sono conficcati nella pelle, si mischia alle lacrime fino a colorare l'angolo rugoso del muretto.
Mi siedo appoggiando la schiena a uno dei pali di sostegno di una rete che non esiste ancora.
Il pavimento è freddo. Il "selaxe" lo chiama mio nonno.
Piango. Urlando fino a sentire la voce strozzarsi in gola.
Percepisco il freddo dell'acqua che entra nella ferita. Poi il viaggio in macchina, il metallo gelido dell'ago che entra nella pelle. Nessuna anestesia ma solo il fascino di quei fari caldi e ipnotici che mi imprigionavano come se fossero un disco volante.
Li guardo e mi immagino di volare di nuovo.
Come un alieno. Nel tepore buono di quella luce.
Resterà una cicatrice dicono.
E so già che me ne vanterò. Me la guarderò allo specchio pensando se sia a destra o a sinistra.
Chiuderò un occhi per vedere come la pelle sopra lo zigomo si stringerà in manierà strana, tracciando un solco sottile in cui perdere fantasie di pirati ed eroi.
Magari un giorno penserò che quell'imperfezione parlerà di me, mi ricorderà ciò che ero, ciò che sarò.
E parlerò di me attraverso ogni cicatrice che la vita mi regalerà.
E forse ci sarà un tempo in cui neanche piangerò
Rimarrà solo il fascino di un'altra storia da scrivere indelebile su di me.
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