ovvero l'imprescindibile necessità di scrivere qualcosa (nell'attesa di una buona idea)
e comunque questo blog si sarebbe dovuto chiamare "dalla Parte di Topper Harley"
21.7.11
Genova - vane ed eventuali (post che avrei dovuto scrivere il 25.07.2001)
Dov'ero ieri?
La notte mi si è rovesciata addosso come un secchio colmo di oblio.
Non so neanche se ho dormito davvero.
Una sconosciuta, una casa vuota, il velluto polveroso di un divano in cui affondare il viso.
Trattenendo l'irrealtà tra le dita come ali di farfalla.
Per paura. Paura di vederla fuggire o di sentirla restare.
Se non stringessi tra le mani questo libro, adesso, non avrei nessuno a raccontarmi che è successo davvero.
Solo il livido proporsi della mia memoria emozionale.
Sapori, suoni, colori, sinestesie.
Solo il rapido riviversi degli attimi. Fugace inseguirsi di quell'avvicendarsi d'anime.
I nutrimenti terrestri.
Ora non ricordo più, nuovamente non ricordo, se non quel libro.
La pagina bianca su cui la mia penna è inciampata.
La teneva lei.
La scrittura morbida, fragile come i suoi sorrisi.
Mi ha fatto tenerezza, lo ammetto. Eppure tutta la mia arrogante solitudine si è spaurita di fronte a quella deliziosa magia.
Fuggire.
Nel sole cocente del pomeriggio. Senza meta.
Fuggire da me attraverso l'essere l'esagerazione di me stesso. Crudelmente.
Lecce è muta questa mattina. Anche la tv è un silenzioso strepitio d'immagini confuse.
Un caleidoscopio sanguinante, volti stridenti, angoscianti incognite.
Li avevo visti quei ragazzi.Qualche giorno fa, quando sono partito da Roma.
Li avevo visti e li ho sfidati. Nella mia mente ho parlato con loro, dell'inutilità della piazza. Della vana illusione che la partecipazione trasmette, dell'esigenza di disilludersi, disingannarsi.
Ero lì. A cercare un treno da prendere a caso, come sempre.
E ho scelto la direzione contraria, non per quel motivo, non per ostinazione. Ma l'ho scelta.
Ora la mia direzione è la staticità dei pensieri di fronte al telegiornale.
Le bocche gementi che tracimano un dolore vermiglio, gli occhi svuotati, scavati d'incredulità e cazzotti.
E' colpa dei soliti penso. Lo penso forte. Come a voler convicermi delle mie stesse idee.
Perché non riesco ad accettare di essere spaventato da chi dovrebbe difendermi.
Da chi ho incaricato di decidere quali azioni vadano fatte per tutelare la mia incolumità.
Lo Stato.
Che la maggioranza di quelli che sono lì non abbia nemmeno la percezione di contro cosa stia protestando continua a girarmi in testa. Ieri l'ho scritto.
Deluso, quasi arrabbiato.
Un popolo, il popolo di Seattle.
E' colpa dei soliti. Lo ripenso.
Lo ripenso perchè in quella bolgia vociante d'intenti, l'atto criminale di un singolo riecheggia attraverso la cassa di risonanza della moltitudine.
E in quell'amalgamarsi si frantuma in particelle incontrollate, si sparge sulla folla ignara, rendendola a volte complice, a volte spaventata vittima.
E nel mucchio i poliziotti devono difendere. Lo Stato, i cittadini, la città, sé stessi.
Ci credo. Perché non tollero che l'istituzione che ho scelto per essere protetto in realtà mi offenda.
Atrocemente, deliberatamente, gaudentemente addirittura.
Ci credo perché se smettessi di crederci allora tutto perderebbe di significato.
Il sentimento verso lo Stato, il senso stesso di Stato.
Non amo le appartenenze, ma essere qui, in questi confini, con queste persone, è una scelta.
L'accetto perché è mia, e perché in questo istante non sopporterei la tragica definizione di fallimento.
Se non ci credo è fallito tutto. E mi ostino.
E non me ne frega un cazzo di Pasolini, non sto con i poliziotti. Sto con me stesso.
Ma in quegli sguardi afflitti, impauriti, violentati, io me stesso l'ho perso.
Nelle lacrime insanguinate, le teste sbattute sul muro, la folle processione di quelle anime macilente, perso.
E giustifico ancora, ma non ci credo più.
Magari sono pochi, magari solo qualcuno ha sbagliato. Eseguivano gli ordini.
Già.
Giro tra le mani il mio libro.
Respiro il fruscio delle pagine.
Respiro.
Non ho perso un istante, in questi giorni, a chiedermi se fosse giusto o sbagliato quel protestare.
Mi chiedo se sono giusto io.
Apro il libro a caso.
"Preferisco dirmi che ciò che non è, è ciò che non poteva essere" .
Silenziosamente, protesto.
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Questo me l'ero perso.
RispondiEliminaMa per questo, io ti amo.
E non sto scherzando affatto.