27.5.14

Ei fece


Sì, ci sono ancora.
Non scrivo perché mi sto godendo questo silenzio. Lo sentite vero? Oggi magari è già più un brusio, un borbottio come di fagioli che ribollono. Ma ieri era proprio silenzio, pace.
Sui social, sui commenti dei giornali online, sotto i post di qualche blog. Che anche internet pare vada più veloce, c'è più banda. Come quelle sere in cui gioca l'Italia e fuori non volano neanche le api, come le domeniche in cui i testimoni di geova sono radunati da qualche parte e nessuno ti suona il campanello.

Ora piano piano il rumore riprenderà. Come in un villaggio leopardiano tutti ricominceranno la loro attività, i loro discorsi, le tifoserie, gli insulti, le illazioni, le cazzate. Tutti. Senza una parte precisa, con l'assuefatta euforia di guardare dita che puntano lune inesistenti.
E niente, sono eventi rari. Come certi allineamenti di pianeti, come la fioritura di quelle piante secolari negli orti botanici.

Sono ancora qui a Milano, forse mi trasferisco, forse no, devo aspettare fine giugno adesso. E in questo silenzio a Milano una cosa c'è. C'è sempre. l'ho trovata ovunque sono stato, come un mantra, come una macchia sulle lenti degli occhiali: la merda di cane sul marciapiede.
E così mi sono informato, ho cercato, ho letto. E ho scoperto che addirittura Manzoni se ne lamentò (Alessandro, che Piero c'ha fatto il business invece...).

Ci sono diversi componimenti in cui affronta il problema, a me è piaciuto questo.

Nei parchi muscosi, tra visi distratti,
sopra i marciapiedi e dentro gli anfratti
sui ciottoli sparsi di ciotole scarsi
tra strade, giardini, piazzette e androni
la troverai: la merda dei cani.

Lo sa bene il cerusico che olezza di setter,
l'infante caduto su resti di boxer,
lo sanno i poeti che schivano inani
la merda dei cani.

Il giovane ignaro col telefonino*
inciampa sul lascito d'un bieco mastino,
pur senza l'aiuto del bifidus attivo
l'alano è orgoglioso del proprio intestino
e ce lo dimostra davanti alla porta
che già la massaia di là si sconsola
che per la raccolta ci vuole carriola.

 Attente le genti incedono grame
chi schiva, chi salta, chi usa le liane
qual milite all'erta che svicola bomba
fan tutti lo slalom com'Alberto Tomba**

C'è quel che la pesta col passo di giava
chi va di legnetto, chi gratta, chi lava
ma è d'uopo per quel con la merda alla suola
sfregare la scarpa con gir che par mola.
Che tutti giù in strada  al raduno dei collie
dimenano le anche che par l'alligalli***

Or qui si consuma quel gretto rituale
d'accompagnarsi di Fido ma non di pale,
che tanto si sa che lo stronzo non resta
e va sempre a finir che qualcuno lo pesta.
Chissà se qualcuno nel dia di domani
solverà quest'angoscia della merda dei cani?



22.5.14

Cattività



Cosa pensano di noi gli animali carini, mentre si fanno le foto che li renderanno famosi nell'internet?
Probabilmete ve lo sarete chiesti centinaia di volte.
Beh, basta chiedere.












EDIT:


Ora qualcuno si starà chiedendo: ma perché tutto questo?
Perché la merda.



E che moriate.



Si fa per ridere eh.
Per ridere io, intendo. Voi la merda!

20.5.14

Il circolo delle verità


In questi giorni di furibonda campagna elettorale, mi è presa la malaugurata idea di interessarmi di quanto sta succedendo nell'internet, e in particolar modo sui social.
Non che ci siano fenomeni tanto differenti dai soliti, è che in questi giorni sono inevitabilmente più evidenti e insopportabilmente esponenziali.

Comunque il fenomeno tipico di queste settimane è la condivisione di foto o video con frasettine a effetto, velate intimidazioni, accorati sursum corda e incuriosite indignazioni da umarell.
Quello che un po' contraddistingue tutti questi contenuti multimediali è l'immancabile cerchietto rosso per evidenziare questa o quella vergogna, ingiustizia, nefandezza o virtuosità, a seconda del contesto.

La cosa più rilevante però è che nella maggior parte dei casi all'interno di quel circolo scarlatto non c'è nulla di importante. Anzi, a volte non c'è proprio nulla in assoluto.
Però, e questa è una cosa di cui i telegiornali non ne parlano, basta mettere un cazzo di circoletto rosso perché le parole che andiamo a scriverci di fianco diventino inoppugnabilmente vere.
Cioè, il concetto di fact checking crolla miseramente di fronte alla potenza evocativa di un semplice giro di mouse con paint.

E vi assicuro che funziona! Se poi aggiungiamo che ormai la condivisione di un video prescinde addirittura dalla visione dello stesso, e si limita a basarsi sul titolo o meglio ancora sul suo originante, beh, la frittata dell'internet è fatta.

Quindi, dato che non ho assolutamente voglia di addentrarmi nei contenuti o nelle discussioni politiche, io mi stavo chiedendo: ma cosa sarebbe successo se Gesù avesse avuto lo stesso ufficio stampa di Beppe Cristo Grillo?

Ecco.






19.5.14

19 maggio


Il 19 maggio di quarant'anni fa non c'ero. Ma proprio nemmeno concepito.
Forse un'idea, di sicuro non pensato così come sono. Ecco, forse nemmeno un'idea.
Come adesso.

Il 19 maggio di trent'anni fa soffiavo sul sangue di qualche ferita. Osservavo quel rigagnolo scuro scivolare lento tra le pieghe della pelle, inerpicarsi su qualche altra cicatrice.
Anzi, in particolare il 19 maggio di trent'anni fa era il ginocchio, ricordo che non provavo nemmeno dolore, e osservavo il bianco della rotula ogni volta che soffiavo e il sangue sbordava dalla conca che si era formata all'apice della gamba piegata che non riuscivo a distendere.

Il 19 maggio di vent'anni fa mi han detto che ci saremmo trasferiti.
Non lo sapevo il perché, l'ho scoperto solo qualche anno dopo. E no, non ero contento. Non di lasciare quel posto, quel continuum in cui tutto era successo per la prima volta.
Ed ero solitamente innamorato in quel 19 maggio di vent'anni fa. Lei aveva lunghi capelli corvini e sorrideva nascondendosi dietro alle maniche tese della felpa. E quel sorriso era sempre come se fosse il primo.

Il 19 maggio di dieci anni fa ero appena tornato dalla Colombia. Mi muovevo piano per non scrollarmi di dosso quel fango che si era solidificato attorno alle emozioni.
E tutto il mondo mi sembrava d'improvviso differente. Non che lo fosse, ma mi sentivo addosso nuovi strumenti, nuovi metri di giudizio, termini di paragone.
Sbagliavo le parole di tanto in tanto e dicevo de repente, poi mi sorprendevo a pensare come se non fossi più lì, più da nessuna parte.

Il 19 maggio di oggi il tempo minaccia inutilmente pioggia. Nessuno gli crede.
È il mio trentottesimo 19 maggio, e di quelli che ho già passato non è che mi resti molto. Forse solo quel senso di spaesamento, quel soffiare curioso sulle ferite, nuovi strumenti che ormai sono vecchi, l'essere irrimediabilmente innamorato senza soluzione di continuità, e nemmeno un'idea.

16.5.14

Orfani 8 - Shakespeare in war


Negli scorsi mesi mi è capitato in diverse occasioni di parlare di Orfani.
Ovviamente mai in maniera troppo seria, e forse tralasciando un po' un giudizio specifico sul fumetto in sé (ma essenzialmente perché sospeso) per dedicarmi quasi con ossessione agli aspetti più sociologici, agli effetti del fumetto come fenomeno di costume, alle dispute, i flame sui social, le critiche, le crociate a difesa, e quel transfert che a un certo punto ci trasforma tutti in sceneggiatori (allenatori, arbitri, politici, esperti di manovre nautiche con navi da crociera, ...)

E tutti a dire, tutti a ipotizzare, a dimostrare che così non va, che quello è un buco, che di sicuro adesso succederà che e io sono convinto che non è così ma. Perché la storia, per com'era costruita, si prestava. Era lasca, lasciava spazio a molteplici rigagnoli, direzioni, percorsi, e il gioco di ognuno (che è quello di sempre) era quello di dimostrarsi brillante, o scafato, o annoiato, o più bravo. Come quando incontri un comico e inizi a fargli le battute per mostrare che anche tu ne sei capace.

Cioè, invece del finale aperto in Orfani c'era l'inizio aperto, e discettare su quel che sarebbe dovuto succedere ("sarebbe dovuto", non "sarebbe potuto") era un modo abbastanza divertente di non fare altro di produttivo. Alla fine si sapeva già il finale (ATTENZIONE SPOILER) e ancora si continuava a discutere della sfumatura di arancione degli alieni e perché nel fronte dell'onda d'urto della radiazione di Čerenkov all'impatto col raggio tachionico non si percepisse la luce spostata per effetto Doppler, o se l'improvvisa accelerazione non avesse comportato uno spostamento temporale lungo la stringa contravvenendo il principio di autoconsistenza di Novikov, o se tutto fosse solo un gedankenexperiment.

Insomma, a mio avviso una delle debolezze di Orfani era che lasciava troppo spazio all'immaginazione (che magari per qualcuno è un pregio eh...), tanti elementi disposti sul tavolo e troppe combinazioni per il loro utilizzo.
Però, come avete potuto notare, in tutte le mie precedenti argomentazioni ho utilizzato l'imperfetto. Era.

Perché adesso Orfani è diventato un'altra cosa.
Quella famigerata apertura di spinnaker che mi auguravo qui si è finalmente completata.

Scopriamo con questo numero infatti che tutto quel che abbiamo visto precedentemente era solo la crisalide da cui doveva nascere altro. E per mesi ci siamo appassionati a osservare quel bozzolo crescere, indicando col dito a ogni rigonfiamento, interpretando ogni movimento, dicendoci che quelle pieghe lì dietro sono sicuro ali e volerà, oppure che si vede benissimo che ha sei zampe, che il muso pare quello di una mantide, che dalle misure sarà di sicuro un insetto carnivoro... insomma, siamo diventati tutti entomologi.

E ora quell'involucro si è aperto e nessuno sa che cazzo di animale sia. Non si sa se volerà, se scaverà, se staccherà teste dopo aver scopato.
Così, da una storia in cui ognuno si sentiva in dovere di dire la propria si è arrivati al punto in cui non ci sono più appigli per costruire ipotesi. In cui si può solo aspettare, chiedersi e adesso cosa succederà? Senza però avere più nessun aiuto dagli oggetti sul tavolo. Perché tutto, alla fine, si è rivelato solo un pretesto, una scenografia di cartone e compensato dipinto, necessaria solo per far recitare i personaggi.
E di personaggi infatti è denso questo numero, di personalità, caratteri, sfaccettature, umori. Recitano.
Ognuno con un'intensità struggente e credibile, ognuno nel suo ruolo o in quello che per ora ci han portato a credere sia il suo ruolo.Uomini e donne con le loro ossessioni, i trascorsi, i traumi. Perché di uomini e donne parla Orfani e ora si capisce finalmente.

A volte bastano solo i tratti spigolosi di un Gianfelice in stato di grazia, a volte l'alternanza dei colori e un cambio repentino dello sfondo, altre volte solo una parola, o un silenzio, pochi elementi che (sulla scorta di tutto quel che abbiamo appreso nella fase "crisalide") chiudono solidamente il cerchio sul carattere dei protagonisti, ci trasportano dal bozzetto al disegno definitivo, e improvvisamente tutti diventano conosciuti, delineati, empatici.

E lungo la linea che fa da spartiacque tra Soldato perfetto e Guerriero nato, tra Boyscout e Pistolero, Jonas e Ringo, quello che davvero fa da padrona in questo episodio è l'insanità, la follia generale, la manifesta problematicità psicotica non di un personaggio specifico (come di solito si usa) ma di tutti. È qualcuno volò sul nido del cuculo con molti più fucili e con ragazzini armati che massacrano senza battere ciglio folle di poveracci affamati.

E tra vendette, tradimenti, scelte, obblighi, drammi, la storia adesso va. E non sappiamo dove.

Ecco, il giudizio era sospeso. Ora posso dire che questo numero mi ha piacevolmento conquistato.




15.5.14

Un marziano a Roma (ego te abduction)




Allora, la notizia l'avete vista.



E con l'ardore e la passione che contraddistinguono il Papa più buono di tutti, si è già messo all'opera.

Papa Francesco che dà la comunione a uno xenomorfo di Alien

Papa Francesco che battezza un gremlins e se la ride quando scopre che continuano a duplicarsi a contatto con l'acqua


Papa Francesco stremato dopo aver dato 34 volte l'estrema unzione a un alieno che continuava a morire e poi a reincarnarsi in un altro corpo

Papa Francesco che si accorge, dopo aver sposato due grigi di zeta reticuli, che sono due maschi

Papa Francesco che confessa Alf al telefono

14.5.14

Fiume in pena


In questi giorni non si sente parlare d'altro: l'Expo di qua, l'Expo di là.
E tutti a dire che siamo alle solite, che in Italia è sempre così, che siamo corrotti, collusi, inseriti nel sistema, tangentari, che queste cose succedono solo in Italia.
Io sono convinto che queste cose succedano dappertutto. Che in ogni contesto in cui si muovono così tanti soldi, appalti, grandi opere, la componente corruttoria è sempre presente.
Solo che noi in Italia abbiamo i poliziotti più bravi del mondo!
In Germania, in Brasile o negli Stati Uniti queste cose succedono ogni giorno, solo che lì i criminali agiscono indisturbati, mentre in Italia grazie ai poliziotti più bravi del mondo (ripeto!) queste nefandezze vengono smascherate. E manganellate. Ripetutamente.

Due manganelli hanno rotto smascherando l'ultima tangente.

E quindi, invece di fare i soliti lamentosi pessimisti che siamo dei calimeri sempre a dire che c'è qualcosa che non va, per una volta cerchiamo di essere positivi: abbiamo i migliori poliziotti del mondo e in Germania intanto  hanno le tangenti.

Vabbé, stavo cercando di sdrammatizzare ché l'argomento che sta per arrivare è abbastanza tragico invece: l'Ex Po.
Cioè, 'ste cose succedono solo in Italia. Davvero. L'Ex Po. Questi con la scusa di una fiera di merda stanno cambiando il nome a uno dei simboli principali del nostro Paese.
Cioè, il fiume Po, che a discapito del nome è il più lungo d'Italia, il cuore della pianura padana, quello che mette assieme gli affluenti di destra e di sinistra, avanti al centro contro gli opposti estremismi, il Po!

[Piccola digressione culturale: il nome Po deriva dalla contrazione del latino Padus > Pàus > Pàu > .
Fra qualche secolo sarebbe probabilmente divenuto P, e dato che non si poteva (per i soliti vincoli della Comunità Europea) avere un fiume di una sola lettera si è deciso di cambiare appellativo.
Per gli antichi Greci era Ἠριδανός, Eridanós (come lo zucchero e uno dei figli di Bossi, e questo parallelismo sullo stato di Lega-Grecia non è da sottovalutare).
Il nome Eridanós contiene l'antichissima radice semitica (*rdn), presente anche in altri nomi di fiumi quali Rodano, Reno, Danubio, Giordano, Merda, Desossiribonucleico.
Infine, per i celto-liguri,  il vecchio nome del Po era Bodinkòs, anche se pare un attaccante della Roma.]


Comunque l'Ex Po come si chiamerà ora?
Faremo un referendum? Lasceremo decidere al caso? Adotteremo un molto più comodo e didascalico "Fiume"? Finirà come tutte le cose in Italia che il vietato diventa obbligatorio e il provvisorio definitivo

Il dibattito è acceso.

C'è chi ironicamente vorrebbe chiamarlo "Molto",  chi più sardonicamente vorrebbe raddoppiarne il nome, e c'è anche chi si sta muovendo per fare lo scambio tra Po e Alcantara, il fiume siciliano, così da smantellare quella cosa che dal Po in giù l'Italia non c'è più (con buona pace dei leghisti che dovranno organizzare le corriere per fare il famoso giuramento).

Io so solo che un po' mi dispiace, anzi, mi dispiace proprio un Po (ecco, magari chiamiamolo pò così almeno gli ignoranti avranno una scusa...)




12.5.14

Diritto penale


Ho scritto questo post qui sotto, oggi.
Fino a un certo punto.


Allora, ieri sono stato al Salone del Libro di Torino.
E certo direte voi, con tutti i libri che leggi dovrai tenerti sempre aggiornato su ogni novità in uscita, carpire le anteprime in modo di anticipare le mode ed essere quindi sempre proattivo, precorrendo lo zeitgeist contemporaneo così da scrivere dei post sempre attuali e interessanti.

In realtà quest'anno ho letto solo libri di Buzzati (che ricordo, è immeritatamente morto nel '72) e il mio concetto di contemporaneità credo si sia inavvertitamente bloccato al 1994 di fronte a un piatto di penne vodka e salmone.

Quindi perché a Torino?
Beh, essenzialmente per due motivi direi paritetici.
Il primo è che per andare a Torino da Padova si passa per Voghera.

Insomma, la sapete quella cosa delle casalinghe di Voghera. Ecco, volevo toccare con mano che fosse vero.

La seconda istanza che mi ha portato al Salone è stata invece la presenza di un personaggio a cui sono davvero molto legato, diciamo pure che si tratta di una delle mie guide, quelle persone talmente grandi da divenire loro malgrado fonte di ispirazione: Decimo Calligaris.

Chi cazzo è Decimo Calligaris, direte voi?
Beh, è stato fino alla metà degli anni '80 l'indiscusso peggior scrittore d'Italia. No, non è un modo di dire, un'iperbole: il suo è un ruolo certificato e sottoscritto dall'Associazione Nazionale dei Critici Letterari, che fino al 1986 era appunto solita assegnare questo insolito premio sulla base dell'intera produzione letteraria dell'anno.

Il nostro vinse questo premio (chiamato "Il calamo incalmato") per ben 31 volte, 23 consecutive.

Quindi perché è così importante uno scrittore che, per sua stessa ammissione, non era proprio così capace?
Perché Decimo Calligaris era un precursore. Scriveva di merda, però aveva lo straordinario dono di anticipare (o forse ispirare) autori rinomati che partendo dalle suggestioni ispirate dalle sue opere, riuscivano a dare alla luce i loro capolavori.

Uno dei casi più emblematici fu l'anticipazione da parte del Callegaris del ciclo de I nostri antenati di Calvino.
Nel 1950 infatti, quindi ben 2 anni prima dell'uscita del primo romanzo della trilogia calviniana Il visconte dimezzato, Calligaris presentò al Festival Culturale Parrocchiale di Chivasso tre romanzi brevi che nei suoi intenti volevano trattare altrettanti aspetti dell'animo umano, molti cari allo scrittore perché erano i valori e le caratteristiche in cui si ritrovava: positività, umiltà, caparbietà.

Il visconte di Mezzano.
Il barbone rampante.
Il cavaliere insistente.

Proprio perché i temi erano così vicini alla sensibilità del Calligaris, questa trilogia si pone come una sorta di autobiografia impropria, un testamento spirituale di un uomo vivo e attivo, quasi una necessità di fissare sulla carta ciò che si è, per passare in un certo senso oltre.

Il tre libri presentati dall'autore piemontese ebbero ovviamente scarsissimo successo, sia perché l'italiano intransigente di Callegaris poco si prestava a una diffusione di massa, sia perché in effetti le sue storie erano male esposte e, a fronte di un'idea di partenza che poteva anche rivelarsi originale, ci si adagiava subito in un deludente intrecciarsi delle vicende e in una scrittura mai al servizio della comprensione e della chiarezza. Istintiva, sconsclusionata, quasi seguisse dei processi mentali che solo l'autore conosceva, come se la chiave di interpretazione fosse proprietà esclusiva del realizzatore e il lettore dovesse accontantarsi delle sensazioni che la lettura poteva dare, come se Callegaris fosse una sorta di Pollock e i suo romanzi i quadri in cui riversava le sue impressioni subitanee.

Vediamoli in rapida sinossi.

Il barbone rampante:  Coso Quadrò è un giovane barbone che vive di elemosina nel centro di Verona. Quando un'ordinanza del sindaco vieta l'occupazione del suolo pubblico per i mendicanti, per Coso è una tragedia, non avrà più di che sostentarsi. Il protagonista però non si perde d'animo, con la positività che lo contraddistingue inizia a pensare, fino a che ha un'illuminazione: inizia a vivere sui paracarri.
Tutta la sua esistenza successiva quindi si svolge di paracarro in paracarro, fino a che, in un martedì di settembre muore.

Il Visconte di Mezzano: essere nobile è sicuramente un vanto e un'agevolazione in alcuni casi. Ma un conto è essere Granduca di Toscana o Principe di Galles, e un conto è essere l'umile Visconte di Mezzano, paesino di qualche migliaio di abitanti in provincia di Trento. E proprio in questa dicotomia si svolge la vita del protagonista Petardo, diviso tra la sua austera nobiltà e l'infima collocazione dei suoi risibili domini.
Una storia per riscoprire il valore delle piccole cose, soprattutto nel momento in cui il Visconte si trova di fronte a una terribile scelta: vendere il suo regno per la costruzione di un centro commerciale o rimanere il Visconte di un paesino che non è nemmeno nelle carte geografiche? Molto formativa.

Il cavaliere insistente:

Ecco, sono arrivato fino qui. Poi mi sono rotto il cazzo. È un post noioso, neanche tanto brillante, insomma due palle.
E allora perché pubblicarlo? Per rivendicare il diritto di essermi rotto il cazzo a un certo punto.
Cioè, non è che potevo dire che mi sono rotto il cazzo e pubblicare una cosa fantasmagorica che tutti si stupiscono e dicono minchia che genio, quindi pubblico una roba di merda e rivendico il mio sacrosanto diritto di essermi rotto il cazzo.

Rompere il cazzo.
Proletari di tutto il mondo unitevi e rompetivi il cazzo.
L'unione rompe il cazzo.
La rottura di cazzo è l'oppio dei popoli.
L'insostenibile leggerezza del rompersi il cazzo.
Diritto di essersi rotto il cazzo.

Fine.






10.5.14

Poi sia


Come dicevo qualche post addietro, con 'sta cosa che sono ancora su e giù da Milano e seguito a essere in piena ricerca di qualcosa di stabile non ho molto tempo di postare cose mie.
Capita quindi che, per non lasciare morire il blog, vada a pescare brani "rubati" ad altri, magari affabulazioni della mia adolescenza, cose che trovo in internet, libri che girano per casa.

A volte sono ricordi improvvisi, studi lontani, illuminazioni che ritornano a splendere per quella strana mistura di caso e memoria.
È proprio in questo contesto che nei commenti di qualche post ho citato, quasi senza rendermene conto, Gelindo Penico.

Gelindo, al pari di Buzzati o Piovene, è stato tra i massimi esponenti dell'intellighenzia veneta degli anni '60.
Tanto schivo e riservato nella vita privata quanto esuberante e satiro nei suoi componimenti, "el profesore" (come veniva chiamato nella sua amata/odiata Marisa sul Sile) alternava l'attività di insegnamento di matematica e scienze nella Scuola Media "Baldassarre Faccioli" (uno dei mille) a quella di scrittore e poeta per diverse riviste molto in voga a quei tempi, tra le più famose "L'eterea", "Anatemi", "L'urside deposto", "Carabattole" e soprattutto "Penetrazioni".
Inoltre nel 1968, in piena rivoluzione culturale, venne pubblicata quella che è forse la sua opera più famosa e conosciuta, una raccolta di poesie che uscì dapprima con l'anonimo titolo "Raccolta 1958-1968", ma che si impose nella sua seconda edizione (a opera dell'editore torinese Corsini) intitolata "Gelindo Penico - Gli ioni in fig.A" (ribatezzato dallo stesso Gelido: Peni e coglioni in figa)

L'antologia è presentata in quarta di copertina come: "l'utile idiozia di un condannato a vita, andate e ritorni sospesi in una fulgida riparazione di intenti primari. Gelindo Penico non fa il lavoro del poeta, non filtra la realtà coi suoi occhi ma anzi, la ripropone pedissequamente per tutto ciò che è, la rende al lettore come fosse solo un messo e non un creativo, la rende vera proprio perché intonsa. E la verità è più crudele di qualunque opera d'immaginazione".

E in effetti i versi burrascosi di "Cadrando", oppure il delizioso controcanto di "Tutto ciò che rima con sgualdrina" (i due componimenti inediti inseriti nel libro) già fanno presagire quale sarà il tono della raccolta.
Fa sorridere anche la censura subita durante una lettura al programma radiofonico "Poeti moderni", quando il verso "... dal perianale subisce come biscia, che non capisce se sia lingua o se piscia, che tanto calda pare infatti, da render abitabili tutti gli anfratti..." fu sostituito per non fomentare le sanguinose proteste che al tempo si stavano attuando a causa degli sfratti degli inquilini delle case popolari di Genova. Altri tempi...

Comunque, al Salone del Libro di Torino che si sta tenendo in questi giorni troverete una nuova ristampa di questo libro (che era divenuto ormai introvabile). Io vi lascio pubblicando qui "La cuspide", un sonetto del 1961 dai cui è stata tratta anche la nota canzone. Chissà che non vi venga coglia di farvi un giro e andarvelo a comprare.

Avevo capito ch'eri bilancia 
ma non c'ho dato peso,
d'oroscopi beninteso
credevo fosse ciancia.

Tu professatati leonessa
di letto e di mestiere,
l'artista del sedere
e finanche della fessa.

Or che invece m'adopro
a introdurti l'ascendente,
che sei vergine scopro

e quasi n'esco pazzo,
d'invero è che al presente
sei una cuspide del cazzo!

 



6.5.14

Per un pelo


Nei commenti al post precedente è stata sollevata a gran voce la questione dell'estinzione della talpa barbuta del Mississippi del 1892.
Allora, tralasciando i trascorsi burrascosi della segnalante (la cui identità celeremo dietro lo pseudonimo di "La nipote di Giggi") e omettendo per questioni di privacy la denuncia per furto d'identità, i quattro anni di custodia vigilata per cose volgari, l'accusa ancora non provata di essere un ragioniere sessantenne di Sarno e quella brutta brutta storia  (veramente brutta) delle papaye, la nipote di Giggi ha giustamente posto il problema del perché si sia estinto questo grazioso animale.

Mi sembra dunque il caso di rispolverare l'ormai consueta rubrica AMEN (Animali Meravigliosi Estinti Nefastamente) che arriva oggi alla sua terza e ultima puntata.

Innanzitutto parliamo della talpa barbuta: cos'era? com'era? cosa faceva?
Allora, tanto per fugare ogni equivoco chiariamo subito una cosa: la talpa barbuta non era una talpa. Ma proprio che neanche ci somigliava, non era nemmeno un mammifero, anzi, a dirla tutta la talpa barbuta del Mississippi non si sa bene che forma avesse.
Il nome talpa deriva infatti dalla pronuncia americana del termine tulpa. Come spiega wikipedia, nella cultura tibetana identifica un'entità incorporea creata attraverso particolari metodi meditativi sviluppati dai monaci, soprattutto i grandi lama tantrici. Secondo tali credenze l'essere, che vive nel piano astrale, può essere visualizzato sotto molteplici aspetti, soprattutto quello animale, da altri monaci raccolti in meditazione.

grande lama tantrico

La talpa barbuta del Mississippi esisteva dunque davvero?
Secondo il pastore protestante Geremia McGregor (1851-1914) sì.
Dice infatti in uno dei suoi numerosi diari: "... capita spesso, quando siamo riuniti in preghiera nel fienile di Tom (Siddle [N.d.T]), che si unisca a noi in meditazione un vecchio monaco dell'Asia ospite ormai da anni della nostra comunità. [...] in quei frangenti la carica mistica è così forte che aprendo gli occhi a tutti noi capita di vedere questi esserini dalle sgargianti ali multicolori e dalle folte barbe che paiono dei cipressi rovesciati. [...] Anche i bambini nella loro ingenuità e purezza li vedono, e mia figlia Clotilde giura che una di queste creature le si è avvicinata addentando il tozzo di pane che stringeva tra le dita. Quel tozzo ce l'ho qui davanti ora e l'ho mostrato a tutti i cacciatori del circondario: nessuno ha mai visto un morso di tale fattura..."

Altre sono comunque le testimonianze che rafforzano la tesi dell'esistenza di questi curiosi animali che, secondo quanto descritto dal naturalista Devon Smith (allievo di Darwin): hanno sulla sommità del dorso delle piccole escrescenze a forma d'ala che però non utilizzano per il volo, il corpo somiglia a quello di un cavalluccio marino ma di ben altra taglia, e si sposta su quattro zampe tozze talmente ravvicinate da sembrare una cassa di quelle che si usano per le mele. La caratteristica più impressionante è comunque la barba, rigogliosa e folta tanto che spesso ricopre tutto l'animale che pare uno di quei cespugli che vagano per il deserto. Di cosa si nutra non è dato sapersi, solo si sa che vive nelle zone adiacente al fiume e lì probabilmente ha la sua tana...

Nel 1883, durante una veglia per propiziare la vendemmia,  è stata addirittura scattata una foto di due talpe barbute intente a giocare con un graspo d'uva.




Ma cos'è successo quindi nel 1892, ultimo anno in cui si è a conoscenza della presenza di talpe barbute lungo le rive del Mississippi?

Come possiamo riscontrare nel "Tragic Story of America's Greatest Disasters" (che è un po' la Bibbia per quelli che fanno questo mestiere)


nel 1892 avvenne una tragica rottura degli argini del Mississippi-Missouri che inondò buona parte dei territori circostanti, isolando un'ampia porzione di villaggi adiacenti e causando danni per un valore imponente.
A seguito di quella disastrosa alluvione non è più registrato nessun avvistamento della talpa barbuta.
C'è chi dice perché, vivendo questo animale in tane scavate sulle rive del fiume, siano state tutte tragicamente sommerse e uccise dalla piena. D'altrocanto in molte cronache dell'epoca si ritrova la versione di chi sostiene che le talpe barbute furono cacciate in massa a seguito dell'alluvione per utilizzare le loro barbe, altamente assorbenti, come imbottitura dei sacchi messi a difesa delle finestre e degli accessi agli scantinati per evitarne l'allagamento. Ancora oggi, la frase che si potrebbe tradurre come "In barba all'alluvione" è spesso usata in quelle zone per indicare un espediente utilizzato per scampare a un pericolo.
Altri ancora giurarono di aver visto, poche ore prima della rottura degli argini, le talpe barbute librarsi in volo e allontanarsi in perfetta fila indiana volando verso sud.

Quale di queste versioni sia quella veritiera non è dato sapersi.
L'unica certezza è che quando le acque si ritirarono nessuno avvistò mai più una talpa barbuta, tutte sembravano scomparse, tutte in qualche modo vittime di quella tragica fatalità.

Anzi, non uniche. Durante quella sera del 1892 anche un'altra persona scomparve, l'unica vittima accreditata di quell'inondazione tanto terribile quanto miracolosa nel conto dei sopravvissuti: Marvin Xiao, monaco tibetano e ospite della comunità da diversi anni. Il suo cadavere fu ritrovato qualche giorno dopo tra le radici di un albero sradicato. Tra le dita stringeva una folta lanugine che pareva una barba, ma tutti dissero che erano alghe...

Ora, se proprio una morale vogliamo coglierla in questa storia direi che è questa: gli Americani avranno tanti difetti, ma quando c'è da fare le cose in grande sono i migliori!

AMEN.


5.5.14

Museica - Falsetti d'autore


Ieri mi ero messo a scrivere un post sull’ultimo cd di Caparezza. Faceva più o meno così:
“Non mi capita spesso di parlare di musica, non solo in questo posto ma anche di là, nel mondo delle persone che camminano e parlano.

Non mi capita perché non so farlo, mi mancano proprio le basi, non so suonare nemmeno il kazoo, tecnicamente non ne capisco niente e di fatto posso solamente bello, brutto, mi è piaciuto non mi è piaciuto.

Lo stesso discorso potrei farlo anche per l’arte. Non ne parlo, non so disegnare nemmeno gli omini del gioco dell’impiccato, tecnicamente non ne capisco niente e mi limito a bello brutto questo lo so fare pure io.
(che su ‘sta cosa di questo lo so fare anch’io, Bruno Munari correttamente diceva che al limite bisognerebbe dire che questo lo so rifare, perché qualcuno per primo l’ha già fatto, ed è questa la potenza dell’arte e dell’artista, quella di arrivare prima del resto. Che poi tutto si rivela spesso un discorso di troppo presto o troppo tardi, ché l’arte è arte ma la famosità dell’arte è anche discorso di culo a volte! [famosità non credo esista, fatevene una ragione]

Comunque, tutta questa introduzione per dire che in questi giorni sto ascoltando il nuovo album di Caparezza, Museica. (lo sto ascoltando nel senso che ho comprato il cd. Casomai ci fosse qualcuno della polizia postale che legge…)”

Poi mi sono interrotto.

Mi sono interrotto perché non ho voglia di scrivere. Ma non di musica, non ho voglia di scrivere niente.
C’è una canzone in questo disco numero 6, si intitola China Town, da leggere china, in italiano, inchiostro, penna, foglio, quelle robe lì.
È una canzone potente, malinconica ed evocativa. Parla di idee, di parole, di quel percorso immaginifico che va dal pensiero alla punta della penna.
Mi è servita a ricordarmi quando scrivevo poesie dietro agli scontrini dell’autogrill. C’era sempre qualcosa che rimestava in quell’inchiostro, quasi come se le parole fossero già state presenti sulla carta, come se gli alberi si fossero nutriti dei pensieri interrotti dei morti sotterrati, e ora, dopo essere morti loro stessi, sacrificati in quel rito di transustanziazione che li traghetta da foglia a foglio, traspirassero in rilievo ogni lettera, come dermografia sulla pelle, e la china era solo uno strumento per ripercorrerne il significato, un esercizio di ricalco che prevedeva  la stessa meticolosità dello scorrere della ruota numerata di una cassaforte.

E ora boh, probabilmente sono anni che non prendo una penna in mano per scrivere qualcosa di mio.

Non ho voglia di scrivere, però una cosa su questo album vorrei dirla: è fastidiosamente intelligente.
Sì, accantonati gli argomenti divertentemente seri del precedente, il cantautore si racchiude in una dimensione più intimista, meno universale. Il museo, l’ispirazione che va da opera d’arte a canzone, il vagare tra le impressioni ricavate dai quadri di questa personale collezione, tutti pretesti per raccontare non più l’umanità ma l’uomo.
Quasi in maniera sconsolata, come se una speranza di massa fosse tragicamente fallita e  occorresse ripiegare sull’individuo, ripartire da lì, in una dimensione ridimensionata, meno corale, riaddossando al singolo la responsabilità di essere, senza delega, mediando qualunque appartenenza per ricondurre ogni decisione al disegno unico di ognuno.

Dicevo, un disco fastidiosamente intelligente. Di quelli che ascolti e pensi: questo avrei voluto essere capace di averlo fatto io (c’è di sicuro un italiano migliore per dirlo, ma in quel momento lo pensi così…)

Un lavoro che musicalmente va abbondantemente oltre il rap, e che anzi è più un’opera rock che spazia tra metal e ballate, rimescolando le impressioni, appunto come nel percorso attraverso differenti sezioni di un museo.
E che soprattutto straborda di idee, di invenzioni, rimandi, citazioni, dettagli, riferimenti.

Cioè, per dire, in  Giotto Beat si parla di prospettiva: la prospettiva inventata da Giotto ma anche quella che dovremmo inventarci noi per sopravvivere a questo decennio, ma parla anche di G8, la musica però è un beat, con i coretti tipici anni ’60, ma i Coretti sono anche un’opera di Giotto, ma le sonorità della canzone sono costantemente inframezzate da suoni 8 bit, e via dicendo… E questo è solo un esempio, c’è di meglio.

Canzoni crudeli nei suoni e nei concetti come Argenti Vive (dove Filippo Argenti, vicino di casa di Dante immerso dal poeta nel fango dello Stige nel girone degli iracondi, prende la parola e risponde al Sommo a modo suo), critiche come Mica Van Gogh,  profonde come Fai da tela, sconsolate come Compro Horror.

È un disco che si tende ad ascoltare sempre da un’angolazione differente, quasi fosse un quadro cubista che raccoglie in sé tutte le viste possibili su di un soggetto.

Tra l’altro, ed è sicuramente un merito, questo non è un disco di protesta. In un momento storico in cui la politica tende ad essere solamente distruttiva, e ci si abbarbica sulle facili strategie della polemica urlata, Caparezza (che non è mai troppo politico) cerca invece di dare una visione personale, critica ma non sragionata, più a favore di qualcosa che non contro.

E mostra. Mostra ciò che vede da lì (Dalì), il suo punto di vista.

E noi che usiamo il nostro punto di vista per osservare il suo.
Come in un quadro di Magritte.








May the forse...

Ieri era lo Star Wars Day (la sapete tutti la storiella sul 4 maggio, may the 4th, nonsto a riraccontarvela. Se non la sapete siete già in internet...)

Comunque all'Auchan lo sapevano...