Il cielo di Bogotà è plumbeo: denso di piombo e perennemente incerto. Minaccia pioggia e smog costantemente, e se a volte la pioggia ci risparmia lo smog si aggrappa ai polmoni come una fucilata di pallini di piombo in pieno petto.
Dall’aeroporto percorriamo la calle 59, oppure era la 63 o magari la 79, superiamo tubi di scappamento temporaleschi, cumulonembi di benzene e anidride carbonica, soffocanti ciminiere ruotate in soffocanti incroci di strade numerate. Sbuchiamo sulla calle 80, incontriamo Padre Maurizio che ci saluta e scappa, fiancheggiamo l’autovia de Medellin e al di là del ponte si apre l’esile skyline del barrio Lisboa.
Ci accoglie randagio come i cani che lo ospitano o che ospita: occhi polverosi che ti guardano dalle terrazze incompiute, zampettano sculettanti rasentando i muri di mattoni rossi, voltando le teste ballonzolanti verso le corriere che sfrecciano sulle vie terrose e crude.
La biblioteca nuova: un sogno dal profumo vellutato di cemento: rumore.
Rumore di fondo interminato e interminabile … cani che abbaiano la loro affollata solitudine, e gente cigolante che si affaccia ai negozi semichiusi, semivuoti, e i vigilantes che fischiano la paura di trovarsi di fronte a un reato: come se il più grande reato non fosse già di fronte a tutti quelli che si sporgono dai confini del barrio Tutta questa miseria, queste facce emaciate, smorte ma sorridenti, questa fame che lacrima dagli occhi; questo è un crimine tremendo, reiterato, ubiquo e probabilmente impunibile.
Il fischietto del vigilante tace un attimo, poi riprende: aspro, acido, fastidioso, a ricordarmi che questo è il Barrio Lisboa, questa è la Colombia, questo è il mondo che vive al di là dei nostri occhi chiusi.
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