23.7.15

L'ultimo post in cui avrei pensato di trovarti...


Quanto dovrebbe durare un commiato?

Nel 1834 il fisico inglese James Prescott Joule tentò di postulare il decorso più efficiente di un saluto d'addio. Molte delle equazioni che sviluppo in quel frangente furono poi riutilizzate dallo stesso quando nel 1840 definì le regole della conservazione dell'energia, ma quel che ci interessa è l'esito di quei suoi studi, che a prima vista potrebbero apparire addirittura bizzarri.

Joule infatti scoprì che il tempo è una variabile che non rientra in f(x). Questo significa che rispetto a esso il concetto di addio risulta un'invariante, e anzi, di per sé il commiato è espresso da una funzione nulla con un risibile quasi ovunque (misura di Lebesgue nulla, integrale zero).

Cosa significa questo? Che se avessi scritto un post di due righe, o di duemila, o addirittura niente, non avrebbe fatto differenza.
Significa solo che gli addii non esistono.

Mi piacerebbe dire che è da un po' di tempo che sto meditando su questo post, un po' che rimando. In realtà l'avevo proprio lasciato perdere/rsi.

E perché proprio adesso vi starete chiedendo?

Perché ieri ho visto Plutone.
L'ho visto è mi è sembrato un sasso liscio e tondo, di quelli levigati perfettamente da qualche torrente, di quelli che trovi a valle, a due passi dalla foce, come galeotti morti fuggendo a un passo dalla libertà.

Ieri ho visto Plutone e l'ho trovato profondamente inutile. Bellissimo e inutile.
Poi ho pensato che anche questo posto è un po' così. Ma con meno idrocarburi e con temperature decisamente più accettabili.

Avete mai pensato che quando si muore in realtà si continua a vivere senza soluzione di continuità?
Si chiamano universi paralleli e ne nasce uno ogni volta che qualcuno muore.
Così succede che abbiamo il mondo in cui viviamo e non ci accorgiamo di essere morti, e tutto intorno a noi rimane essenzialmente identico, e ovviamente gli altri continuano a morire ché tanto nascerà anche per loro un nuovo universo in cui non si sono resi conto di essere morti, e così in una crescita malthusiana senza un limite contro cui sbattere.
Ecco, quando muori e continui a vivere sei te stesso ma in realtà non sei più tu. E non provi più niente. Atarassia.

Non ne sono sicuro, ma forse tra oggi e quando ho iniziato a scrivere questo blog è successo.

C'è stato un tempo recente in cui sembrava l'unica cosa possibile. Dico, abbandonare in questo posto le scorie del mio essere me, condividere col cinismo del sopravvivente più che con la partecipazione dell'entusiasta.
Ora non è più così. Per tanti motivi che non ha senso riportare qui.
Tanto chi vuole o ha voluto, è già stato capacissimo di utilizzare l'indirizzo mail lì di fianco.

La verità, facendo un brutale riassunto, è che ho ancora tante storie da non raccontare e questo mi sembra proprio il momento perfetto per smettere di non non raccontarle.

Tanto ci sarà di sicuro un altro posto, un'altra stagione, un'altra deviazione dal percorso. Forse già c'è.
Ma non è più questo.

[evito la tristerrima sezione dei ringraziamenti anche perché, e questo è invece doveroso dirlo, il fine primario di internet (che, lo ricordo per i distratti, è SCOPARE!) non è stato assolutamente traguardato per il tramite di questo blog].

Addione!




1.7.15

...e celere tornerai!



Lo so, a volte mi si rimprovera di parlare troppo di fumetti, ma era addirittura dai tempi di "Sette anime bannate" che su questo blog non si parlava di Dylan Dog.

Il numero 346 si intitola ...e cenere tornerai e rappresenta il culmine di quella che è stata battezzata come Fase 2, la seconda fase del processo di rinnovamento della testata da parte della squadra capitanata da Roberto Recchioni.

[Attenzione: in base alla vostra sensibilità potrebbe contenere spoiler e tracce di frutta a guscio]

Dylan Dog è morto, questo è evidente, nell'ironia del contrappasso si è tramutato in uno di quegli zombie contro cui lottava nel primo episodio. Trent'anni fa.
Arranca nel suo incedere cadenzato, sempre uguale, perdendo pezzi di quel sé in putrefazione.
Un morto vivente.
Ecco, l'aver suddiviso questo nuovo percorso editoriale in fasi è probabilmente un esplicito richiamo all'elaborazione del lutto.

Negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione.
Le stazioni di questa Via Crucis in bianco e nero.

Negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione.
Che a conti fatti è anche ciò che succede in quest'albo.
Un Dylan afflitto da quell'inconcludente girotondo che in fondo è sempre stata la sua vita, non vuole accettare di perdere tutto quel niente che si è costruito attorno per darsi una parvenza di soppravvivenza.
Non lo vuole, e questo rifiuto si trasforma presto in rabbia. Verso Groucho, la vita, il sistema, il fato, verso ciò che è diventato il suo mondo e sé stesso.
Arrivando a perdere completamente la coscienza della propria persona, smarrire definitivamente un'identità già precaria, la somma delle proprie stratificazioni che si sgretola come argilla secca spazzata dal vento,  fino a essere solamente polvere sospesa in un raggio che filtra da qualche spiraglio.
Ed è lì, in quel microuniverso mutevole e inquieto che si rimescolano i ricordi, come in uno spazio quantistico in qui non valgono le leggi della fisica, in cui passato presente e futuro possono essere visti da tutte le angolazioni e nello stesso momento, cerca la consapevolezza di sé, o meglio di tutti quei sé che nel tempo il personaggio ha saputo essere. Personaggio.
È questa forse l'epifania di un istante,  il vortice metafumettistico che lo pone di fronte a ciò che effettivamente è: un personaggio che non può cambiare. E di fronte alla rassegnazione immota tipica di ogni depressione, l'unica via d'uscita è solamente il suicidio. Dylan che uccide sé stesso, non per resilienza o per scontata resurrezione, no, per assoluta necessità.

Ecco, rimane così solo l'accettazione, il "bentornato Dylan Dog", la fenice che risorge dalle proprie ceneri, il diverso ma uguale, rassegnazione, ineluttabilità o precisa volontà di cambiamento?

Ora, ammetto di aver sempre mal sopportato il biasimevole Dylan Dog di Paola Barbato, immaturo e piagnone, quello che si trascina con sé non so che peccato originale, un personaggio colpevole che sconta i propri torti, scritto (ma magari è solo la mia percezione) con un certo sadismo, quasi una sorta di rancore da contrapporre alla benevolenza sclaviana, quell'accondiscendenza maschile che tanto somiglia all'autoindulgenza.
E ammetto anche che le derive metafumettistiche mi affascinano sì, ma nella giusta dose e soprattutto nel giusto contesto (qualcuno ha già detto DYDPOOL???). Ché l'abbattimento della quarta parete a volte è solamente un crollo violento che alza inevitabilmente polvere fastidiosa e non altro.
Ah, ammetto anche che più che le storie "SU" Dylan preferisco quelle "DI" Dylan, ma meglio ancora gradisco le storie "CON" Dylan, quelle dove l'indagatore è solo il tramite per raccontarci altri personaggi, magari protagonisti subitanei di poche vignette, vite effimere tra una closure e l'altra, ma che sono sempre state a mio avviso il fulcro della narrazione dilandoghiana.

Ecco, fatte queste ammissioni, cosa resta di quest'albo?
Beh, di sicuro c'è lo spirito di andare oltre le dichiarazioni di intenti, quell'incitamento a osare che trova finalmente una realizzazione, c'è l'indeterminatezza che a suo modo spaura, la sensazione che tutto potrebbe concludersi in modo assolutamente inaspettato. C'è la sensazione che tutto potrebbe addirittura concludersi, e forse lo fa. In quell'attimo in cui Dylan incrocia gli inquisitori di Caccia alle streghe c'è un monito crudele che ci ricorda che non ci si deve adagiare sulla sicurezza che l'eroe ne esca sempre vincitore. Sempre vivo.

C'è una storia che paga un po' la sua collocazione, che sarebbe stata sicuramente più efficace più a ridosso de Il cuore degli uomini, ma che comunque spicca sia nella fluidità della sceneggiatura, nelle soluzioni dei vari passaggi, nelle citazioni, e soprattutto nella capacità dei fratelli Cestaro di materializzare graficamente tutta l'angoscia di cui sono pregne quelle pagine. Tutta l'irrimediabilità, l'inquietudine dovuta all'inevitabile, che per osmosi si rimpalla tra personaggio, autori, lettori.

E poi c'è Dylan, "disingannato ma non rinsavito". Che torna a essere sé stesso, col clarinetto da suonare a mani invertite, col galeone da non finire e Groucho che gli lancia la pistola. Eppure sarà un Dylan diverso, forse maturato, forse disilluso, forse meno eroe romantico. Come un Didimo Chierico (Dydimo!) a reincarnare una nuova proiezione di chi lo scrive, un personaggio nuovo che emerge dalla crisalide della sua avvenuta mutazione. La linea di demarcazione tra ciò che è stato e ciò che è.
Per dirci che ormai non è più tempo di ripensare a chi eravamo noi trent'anni fa, e come lo vivremmo se avessimo oggi tredici anni o come sarebbe stato se allora ne avessimo avuti quaranta.
Che non è più una questione di attese o di aspettative, ma solo di scelte.
Che dobbiamo solamente decidere se questo è il fumetto che vogliamo leggere, o altrimenti non leggerlo (o al limite leggerlo sapendo che non sarà mai ciò che vogliamo).
Insomma, è un Dylan del presente che si presenta.

E niente, a voi la scelta!


26.6.15

Sette anime bannate



Quando ho smesso di badare al blog stavo scrivendo una storia.
Cioè, scrivendo... avevo in testa una cosa su cui abbastanza casualmente prendevo appunti.
Ecco, io quando prendo appunti non è che sono proprio metodico. E nemmeno prolisso.
Anche se ho in mente mezza Divina Commedia già scritta, io mi annoto solo una frasetta sul notepad del telefono. A volte anche solo una parola chiave. Magari abbreviata.
È perché penso che poi me ne ricorderò, che basterà quel codice segreto per spalancare le porte dell'archivio in cui memorizzo gli sviluppi di tutte le mie idee.

Beh, non è così. Il mio telefono c'ha pagine e pagine di righe criptiche che qualcuno di nascosto inserisce, io non di sicuro dato che non so proprio a cosa si riferiscano.



Comunque, volevo scrivere 'sta cosa.
Anzi,  in realtà la prima idea era di creare un finto gruppo di facebook e lasciare che fossero i commenti a portare avanti la narrazione. Come se fosse un gruppo vero, magari privato ma in cui qualcuno era riuscito in qualche modo a entrare, un gruppo privato in cui non scriveva più nessuno ma che ora si poteva leggere.

Insomma, avrebbe dovuto essere il mio The Blair witch project riaggiornato al 2015 e senza tutta l'umidità a cui si espone un cineoperatore per girare nel bosco di notte.

La storia, per come ce l'avevo in testa parlava di troll, fan, lurker e hater. Animali mitologici di questo millennio digitalizzato.
O meglio, raccontava d'altro ma il vero scopo era quello di descrivere i diversi percorsi, le diverse esperienze che avevano portato un gruppo di persone a essere ciò che erano sui social. Magari cercando di dare una chiave interpretativa alle polemiche, gli odii da tastiera, le flame war, il cinismo, il sarcasmo mal riuscito. Perché essere i primi a commentare e scrivere inevitabimente qualcosa di fuori luogo? perché difendere a spada tratta sempre e comunque senza se e senza ma il proprio idolo? perché gli attacchi a prescindere, le falsità strumentali, le finte incomprensioni, l'ironia che non è ironia, l'offesa, il rancore?
Perché i silenzi?

Ecco, avrei voluto che alla fine un po' di risposte saltassero fuori. Spostando il fuoco della camera da presa al di là dello schermo, inquadrando la noia o la frustrazione, o le situazioni che sfuggono di mano, o la solitudine, o solamente l'essere una persona di merda. Avrei voluto questo, passare ai raggi x la foto del profilo per svelare il quadro cancellato che c'è sotto.



Il pretesto era Dylan Dog.
Perché? Perché quando avevo quattordici anni era il mio facebook. Tra quelle vignette venivano postati i link che correvo ad aprire in biblioteca. Qualche parola che non conoscevo tipo "panoplia", oppure un libro, un film, una leggenda, il nome di un posto, di un mostro, una canzone.

E poi perché basta farsi un giro sulla pagina del suddetto per trovarsi di fronte a un'istantanea di tutti quei caratteri che volevo appunto raccontare.
Si partiva parlando male di Dylan, magari il primo, quello che beveva birra e whisky, che ammazzava a sangue freddo, che aveva una barca nascosta lungo le sponde del Tamigi. Si iniziava così, con la più imponente battaglia di commenti che la rete avesse mai visto.
Bannato! Bannato! Bannato!
Bannato!

Si ritrovano in sei, con la voglia di continuare a scriversi, a dirsi, magari solo a perfezionare il loro metodo. È solo per un caso, un mi piace notato, un commento spalleggiato. Insomma, creano questo gruppo "Sette anime bannate".
E lì parlano. Di Dylan Dog soprattutto. Magari lasciando sfuggire qualcosa di sé tra le righe. Organizzando la prossima incursione, stendendo piani, riscrivendo sceneggiature come avrebbero dovuto davvero essere per l'albo perfetto. Anche litigando. Odiandosi o amandosi per quel che i loro caratteri li obbligano o gli concedono.

Poi c'è un lui che si scopre essere una lei, però lo veniamo a sapere solamente quando sparisce, cioè, lo svela uno degli altri, che è un hacker, un ragazzino hacker. A prima c'erano stati i commenti misteriosi di un profilo di Dylan che non era iscritto al gruppo, apparivano e poi venivano cancellati (ma c'è lo screenshot).
Ah, il fatto è che lei aveva raccontato una storia, pareva una cazzata a dire il vero, una di quelle cose che racconti intorno al fuoco con la lampada sotto al mento e poi urli all'improvviso. Ecco, parlava della prima copertina di DD, quella mai pubblicata, parlava del progetto, del team che l'ha portato avanti i primi anni, TIZI.ANOnimi si facevano chiamare così e nessuno sa chi fossero veramente. Ma Dylan l'hanno creato loro. Col whisky e tutto il resto.
Forse c'è una foto, una polaroid sbiadita, hanno i baffi finti di Groucho c'è anche una donna, e uno schizzo della copertina fatto a memoria, un vecchio computer che forse qualcuno è in grado di far funzionare, una registrazione rubata, e il sangue in casa, i vetri rotti, le vite che dal virtuale si sfracellano in caduta libera verso il reale, accorgendosi che non c'è più differenza. Poi che c'è quella vignetta che è la chiave di lettura di un codice da decifrare, la password per svelare lo scopo del progetto. Una cosa importante si direbbe, dato che c'è chi a distanza di trent'anni ancora non si fa scrupoli a uccidere.
Poi boh, ci sono loro dietro alle tastiere, chi coi piatti che strabordano dal lavandino, chi con la moquette perfetta e il parquet lucidissimo, chi sputa veleno sullo schermo col baby monitor che gracchia lì di fianco (gemelli...), e chi odia, odia di qua come di là.
Chi forse cambierà e chi è irrecuperabile, chi si scoprirà amico, innamorato, impaurito, buono, morto.

Appunti, e appunti, e appunti.
Per una storia che ho appena deciso di non scrivere. Me ne sto liberando. La rigurgito qui, sul fondo arrugginito dell'internet in modo da non portarmela più appresso. Mi occupava spazio, mi pesava e non mi servono pesi in questo momento. Taglio i fili di tutti quegli intrecci che avevo disegnato col pensiero, un ultimo sguardo commosso all'arredamento e chi s'è visto s'è visto.

Perché scriverlo direte voi?
Perché Sette anime bannate è un titolo figo che avrebbe dovuto essere il nome di questo blog.
Me lo sono tenuto lì pensando che prima o poi qualcuno l'avrebbe detto. E invece no, nessuno l'ha mai usato, e mi piaceva l'idea di dargli una data di nascita.
Oggi. Che è il mio compleanno.

E mi tolgo 'sto peso.

22.6.15

Pedico di famiglia



Io vengo da una famiglia. Quindi almeno stavolta parlo con un minimo di cognizione di causa.

Vengo da una famiglia, e ammetto che un po' di sforzo mi ci vuole per comprendere il come mai c'è gente che ne desidera una. Ma tant'è, non siamo tutti uguali: c'è chi si eccita facendo sesso coi cadaveri e c'è chi invece vuole sposarsi e avere dei figli.
Ovviamente massimo rispetto per tutti, anche se, come dire, quando fai sesso coi cadaveri non rischi di mettere al mondo il nuovo Hitler.

L'altro giorno a Roma c'è stato il Family Day, che è una manifestazione a favore della famiglia e contro l'ideologia del gender (qualsiasi cosa significhi), le adozioni gay (ma chi vuoi che se lo adotti un gay?), le altre famiglie che non sono famiglie (generalmente i culattoni, i negri anche se vengono coi barconi stavolta vanno bene perché fanno tanti figli naturali senza additivi gay).


A manifestare a favore della famiglia e del fare figli c'erano le suore.

Un grammo di buon esempio vale più di un quintale di parole [San Francesco di Sales]

E quelli che non sanno scrivere "Sì" con l'accento.




[ricordo che la disortografia è una malattia, anche se chi ne soffre non te lo scriverà mai...]

Comunque, erano tutti lì per dirsi che i loro figli sono minacciati dal fatto che gli omosessuali vorrebbero sposarsi. Tra di loro dico, non con i figli dei suddetti (cioè, se il figlio è gay magari anche sì. Lo sapevate che la quasi totalità dei gay ha genitori eterosessuali? E quindi adesso di chi è la colpa di questa fantomatica minaccia?)
E io mi chiedo, perché? Cioè, cosa succede in un matrimonio omosessuale che mette così a rischio l'integrità di 'sti poveri bambini nati dall'amore di una mamma femmina e di un papà maschio? (sì, è così. L'altro giorno in piazza c'erano 400.00 persone convinte che i figli nascano dall'amore di mamma e papà. E che vuoi dirgli a gente così? Che quando piove sono gli angeli che fanno pipì?)
Ai matrimoni omosessuali so per certo che usano i bambini rapiti dagli zingari per attaccare le paillettes ai cappelli a cilindro, e quando sono stremati li sacrificano su un altare a forma di glande e ne bevono il sangue per venerare Satana. Ecco perché i matrimoni gay sono così pericolosi ed è giusto vietarli.



Ah, e poi c'è il gender.
Il gender è quella cosa che vogliono insegnare ai bambini minorenni per traviare le loro menti minorenni e inculcargli la credenza che anche le femmine possono guidare il trattore e giocare a Call of Duty, mentre magari i maschi fanno da mangiare e guardano Violetta. Gli esempi più lampanti di questa depravazione sono Samantha Cristoforetti astronauta che ha l'acca nel nome e i capelli corti come le lesbian e Carlo Cracco che cucina con la barba e farcisce le patatine in sacchetto come quando si giocava a mamma casetta.

Ora, non vorrei dire una cosa troppo seria, ma chi combatte contro i diritti di qualcuno forse non è molto confidente che i propri ideali siano così solidi.
Forse quelli che si ergono paladini della famiglia sono gli stessi che lasciano i vecchi nelle case di riposo senza mai andarli a trovare.

Comunque, io non è che sono proprio a  favore della famiglia. Né del matrimonio, etero o gay che sia.
Penso che un frutto che rimane attaccato al ramo marcisce senza generare nulla, e credo che tutto questo affermare le proprie posizioni sia da una parte che dall'altra contribuisca solamente a distogliere l'attenzione, a sprecare energie sicuramente indirizzabili in maniera più efficace, magari a favore dei diritti individuali, dato che mi risulta che l'unica entità davvero naturale sia l'individuo (a parte i gemelli siamesi), tutto il resto è solamente un costrutto sociale che ha sicuramente ottime ragioni d'essere, ma che rimane un fenomeno passeggero.

Però boh, mi resta che non riesco a capire fino in fondo cos'è che davvero spaventa queste persone.

Vabbé, io non so se 'ste cose gliele ha dette davvero dio.
Però mi piacerebbe che un giorno trovassero qualche frammento di vangelo che spieghi come siano andate davvero le cose.
Cioè, immaginatevi il dio del vecchio testamento, quello che si era specializzato a mettere incinte le novantenni e a far nascere figli dalle bisnonne.
Ecco, arriva un giorno dagli angeli e gli fa:
"Oh, Gabriele c'ho in mente un'idea per un altro miracolo"
"Bene, sentiamo, in che casa di riposo mi mandi 'sto giro a fare l'annunciazione? no, no, no non dirmelo: mettiamo incinta una con l'alzheimer..."
"Macché alzheimer, asessuato di merda, voglio rivoluzionare il concetto di miracolo! Basta ventri grinzosi e pelli di cartavelina. Oggi, dopo 5 miliardi di anni, finalmente si cambia..."
"Mi hai convinto: sputa il piano!"
"Bene, senti qui: pensavo di mettere miracolosamente incinta una vergine di tredici anni! TA-DAAA!!!"
"..."
"Che?"
"No, no, interessante..."
"Dai, lo so che quando fai quella faccia c'è qualcosa. Dai, dimmi..."
"Va bene... Una tredicenne incinta? Ma sei serio???"
"Una tredicenne VERGINE incinta..."
"Sì, vergine... e io uso il sospensorio... Le tredicenni ormai sono tutte vergini e incinte... Ma cazzo, non la guardi MTV?"
"Quello di come è fatto il cibo?"
"Nooo, cazzo... le ragazzine pregnant...che miracolo vuoi che sia una puttanella che ha tenuto troppo a lungo la baguette in forno?"
"Quindi che consigli?"
"Uomini!"
"Che?"
"Uomini! Facciamo partorire due maschi. Una coppia omosessuale che avrà un figlio... figo no?"
"Uomini? Ma scusa, senza utero come fa uno a rimanere incinto? E poi da dove dovrebbe uscire il bambino?"
"Oh, sei tu quello dei miracoli! Se non è un evento straordinario questo... Cristo, sarai ricordato nei secoli dei secoli cazzo. Vedo già i titoli: Giuseppe e Mario, papà al quadrato!"
"Minchia mi piace! Hai ragione, facciamolo! Il primo maschio che partorisce... Sono un genio!!! Ma come mi vengono... un genio! No, questo dev'essere il miracolo più grande di tutti, altro che Giuseppe... altro che figlio dell'uomo. A Gabrié, 'sto figlio lo faccio io, il figlio di Dio: senti come suona bene! Il figlio di Dio. Mario me lo inculo io! (metaforicamente eh...) Vai, annuncia!"
"Volo..."
"Zeus, suka!!!"








18.6.15

Disconosci te stesso - "Il suicidio spiegato a mio figlio" di Maicol&Mirco


Di primo acchito, se almeno una volta nella vostra vita vi siete già suicidati, forse questo libro potrà sembrarvi addirittura ovvio.
Beh, se mi permettete di darvi un consiglio cercate di non fidarvi della prima impressione, non è quel tipo di libro no. E non per suo merito, non del tutto almeno. Cioè, è un libro che dal vostro punto di vista paga la disomogeneità di voler essere omogeneo.
Voi conoscete gli altri lavori di Maicol&Mirco e avete sempre percepito un filo conduttore anche in quei libri in cui le pagine sembravano completamente slegate l'una dall'altra, vignette singole che pur nella loro autoconsistenza non davano la percezione di una soluzione di continuità, ma anzi sembravano proprio le tessere sparse di un unico terrificante puzzle.

Poi capita che nella vostra curiosità necrotica di suicidi leggiate questo Il suicidio spiegato a mio figlio, e in questo caso invece cogliete a pieno il concept che abbraccia tutta la storia, eppure succede che non sia la stessa sensazione degli altri libri, come se le tessere fossero le stesse ma qualcuno le avesse incastrate a forza nella posizione sbagliata.
Sapete perché succede? Perché l'autore ha voluto farvi credere che ci sia una contrapposizione laddove in realtà non c'è.
Avete creduto ci fossero delle pagine che parlano di vivi e della pagine che parlano di morti, quando invece sono solo morti. Vi siete illusi che ci fosse una parte del libro vera e una falsa, mentre tutto è falso. Fogli rossi e fogli neri, e sono inevitabilmente bianchi.
È quel che succede quando si è morti, ci si avvolge in una coperta di manicheismo solo per convincersi dell'esistenza di un'alternativa. Facile fregarvi a voi defunti!

Per tutti gli altri invece, quelli che finora non ci hanno mai pensato, quelli che sono troppo giovani o troppo vecchi, quelli che ci hanno provato ma niente, quelli che sempre, quelli che da adolescente, quelli che sono stati salvati e hanno pensato che la salvezza fosse non essere salvati, quelli che non sono stati salvati e infatti sono ancora vivi, quelli che ogni mattina la prima cosa quando mi sveglio, quelli che è un reato, un delitto, un peccato, un'oscenità, uno scempio. Tutti quelli insomma che non si sono suicidati davvero, che quindi parlano solamente per ipotesi, per sentito dire.
Ecco, questo libro è per voi. Non tanto per indurvi o convincervi, né tantomeno per spiegarvi come si dovrebbe fare. Non è didattica o manualistica, non vi dice il perché o il come o il quando: vi indica il quanto!

La storia, che è dentro una storia, che è dentro una storia, è il bugiardino in cui verificare il dosaggio di suicidio che dovremmo assumere nella nostra esistenza per vivere (morire?) meglio.
Incroci gli assi della tabellina, età, peso, altezza, libri letti, amori, sorrisi, delusioni, e ottieni la tua posologia personalizzata, il percentile aureo da assumere ogni giorno per prendere quotidianamente coscienza di ciò che siamo, dell'effimera consistenza del nostro arco vitale.

Vi spiega quanto dovreste suicidarvi questo libro. Ad alcuni forse dirà di farlo completamente e subito, ad altri magari spiegherà che non sono pronti, che non sono proprio fatti per suicidarsi nemmeno un pochettino, ad altri ancora darà la proporzione esatta, la misura di quanto spegnersi per sgravarsi dai rimpianti del fine vita, per inclinare il buffer delle angosce che si accumulano come corrente elettrostatica generata dallo sfregarci la vita addosso.
Dicono che in punto di morte i più grossi rammarichi siano legati al non aver vissuto come si voleva, all'aver concesso troppo al lavoro, al non aver espresso i propri sentimenti, al non essere stato felice.

Ecco, parcellizzare le dosi di suicidio ci consente di serializzare i punti di morte, ci dà consapevolezza, ci lascia il tempo di riflettere sulle nostre mancanze, fino all'estrema conseguenza di decidere finalmente di noi e per noi, senza ingannarsi nel placebo del vivere, senza remore, ineluttabilità, impotenza.

E, come si diceva, quest'opera non ci spiega tanto il perché o il come, ma proprio il quanto. Un punto di vista nuovo, finalmente onesto, su un fenomeno che nei secoli è stato quantomeno bistrattato, messo ingiustamente sul banco degli imputati da un'etica ipocrita incapace di mediare le effettive necessità umane, una filosofia ebbra di "conosci te stesso" in grado solamente di puntare il dito contro il disconoscere sé stesso, un atto di condanna a precedere qualsiasi processo.

Se siete ancora vivi dovreste leggerlo.