13.2.12

Post Coitum di Makkox - ovvero prima della prona


Con colpevole ritardo e incolpevole entusiasmo, arrivo finalmente a parlare di Makkox.

Non che in questi mesi si sia sorvolato sul genio dell'autore formiense, anzi, in più e più occasioni c'è stato modo di parlarne, di scriverne qui e anche qui, di seguirne le conferenze a Lucca, a Treviso, di leggerne le vignette sul Post, sul Male, su Raitre, di seguire le vicissitudini del Canemucco, di facebook e twitter.

Insomma, se Makkox non fosse veramente bravo avrebbe anche un po' rotto i coglioni, ché è dappertutto.

Post Coitum potrebbe essere una raccolta di vignette.
Una di quelle robe alla Forattini, con la pubblicità su Italia Uno e il titolo tipo Andreacula o Karaoketto.

Potrebbe esserlo, ma non lo è. Mai.
Fa fatica addirittura a essere un libro, con quelle sue misure scomode, le pagine pesanti, dense, il formato da pirofila in pirex, il peso da lasagne al forno in una pirofila pirex, e il gusto, il gusto da lasagne al forno nella pirofila in pirex in una domenica che ti aspettavi i soliti tortellini in brodo.

E' che la carta è solo un trucco, uno sviamento della percezione, una fruizione insolita per la rappresentazione teatrale di una tragedia solita. Perché di questo stiamo parlando: palco, attori, sipario, quinte, intermezzi, suggeritori, voce narrante... E' il teatro, bellezza!

E così andrebbe giudicata quest'opera.

Dapprima la storia.
La madre di tutte le tragedie. Satire di un tardo impero, dice il sottotitolo. Tardo. Dateglielo voi il significato che tanto di noi si sta parlando.
Non è la caduta degli dei, non il crollo del muro, non il potere assassinato, no. Si parla di crepe. A volte invisibili, altre volte tragicamente slabbrate. Crepe che si insinuano nel cuore farraginoso di uno stato, di uno status. Crepe, che si inseguono nel tristemente comico arrabattarsi di muratori improvvisati, cazzuole dialettiche dall'impugnatura incerta, incrinature che si allargano lasciando cadere l'intonaco dorato con cui ce l'avevano venduto quel muro posticcio.
Un po' Giulio Cesare e un po' La locandiera. E' Goldoni che s'incula Shakespeare, il dramma spettegolato dalle finestre di un palazzone di periferia.
E' la storia di quest'ultimo anno politico, impigliata giorno per giorno tra le maglie delle reti che Makkox tende nella quotidianità dei giornali, delle radio, dei tv.

E' il racconto di un uomo, un uomo di potere. Un uomo che è il potere. Parla di lui per dirci di noi.
Paragona le sue mancanze alle nostre, le sue sfortune alle nostre, le cadute e le ascese, la rabbia privata, il privarsi della rabbia, la svilente presa di coscienza di essere circondati da idioti.
Siamo noi che suoniamo il clacson, che facciamo la fila alle poste, che ci lamentiamo dal salumiere, che ci rendiamo conto del misero ripagamento di tutti i nostri sforzi.

Siamo noi o quel che vorremmo essere, perché, a differenza delle nostre, questa tragedia ha, a modo suo, un proprio lieto fine.

Gronda di lieto fine questa tragedia.

Poi gli attori.
Nel primo atto è Fini che addomestica il pubblico. La recitazione sembra incerta, ma pare quasi una scelta registica, la preparazione dell'attesa, la pacatezza che fa da contraltare all'esuberanza imminente.
E come un'esplosione arriva il protagonista assoluto, lui. Silvio Berlusconi.
Crudelmente goliardico, ineffabilmente atroce, deliziosamente dolce. Un ossimoro compresso nella nudità di un doppiopetto.
E' tutto e fa tutto, corre tra gli spalti, si adombra, suggerisce al suggeritore, improvvisa. Lo spettacolo è lui e quando cede il passo ai comprimari lo fa con una generosità meschina, quasi scegliendo i momenti per trarre comunque vantaggio da certi impallamenti. A volte.
Solo sporadicamente lo vediamo smarrito, ma mai riusciamo a capire davvero quanto sia mestiere e quanto inciampo. E quel copione sembra proprio averlo scritto lui, sembra. Così come sembra che abbia perduto alcune pagine.
E in quegli strappi vive la storia. Nella grottesca sfilata dei leghisti, nella becera e urlante commedia dei dibattisti, nella devitiana devitica comicità degli scilipotisti.
E in Tremonti.
Solo lui sembra possedere la verve necessaria per rubare la scena al primo attore. Le sue scene sono memorabili, occupa il proscenio straripando sulla ribalta, lo fa suo: con ardore, tenerezza, infantile possessività, furore. Occupa ed emoziona.
Quasi a sfidare l'assoluto predominio del Cesare, novello Bruto a illudersi di scoccare la pugnalata mortale.

Eppure Lui rimane lì. Ferito ma non sanguinante. Quasi che la nazione, che a lui si è sottomessa, si sia tramutata nel ritratto di Dorian Gray della sua sofferenza.
Quasi fossimo noi gli Elliot ubriachi a smaltire la sbornia di un alieno teneramente incosciente e temerariamente presuntuoso.

Nella godibilità del tutto stonano forse certe comparsate, storie estranee, lontane, abbozzi non sviluppati, moncherini. I vari Obama, Osama, sono echi di altri drammi, altri teatri. E forse l'unico cruccio è che non ci sia anche lì un Makkox a raccontarli.

Ah, a proposito. E Makkox?
Beh, Makkox guardava. Guardava e disegnava. Con quel suo nonsoché che non stiamo neanche qui a spiegare.
La sua voce narrante è sempre presente, arrichisce ogni scena, la introduce socchiudendo i cassetti della memoria, brevemente, acutamente, dissacrantemente. Mai invasivamente, ché lo spazio è degli attori.

Sipario.

P.s. Se esiste ancora e se volete farvi male, di quel male gratificante che sa di lezione di vita, beh, compratelo.

8 commenti:

  1. "devitica comicità": ???

    Converrebbe che iniziassi a usare le note: faccio una fatica pazzesca a comprendere ciò che scrivi, non che la tua scrittura sia cattiva o fatta male ma è una scrittura densa di riferimenti, di citazioni, di allusioni che bisognerebbe avere una cultura enorme per capire tutto. Ora, gentimente, spigami questa comicità devitica che sarà pure una cavolata ma io non ci arrivo proprio.

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  2. Quel "Goldoni che s'incula Shakespeare" è da approfondire.
    Lo trovo brillante, comunque. (questo almeno credo di averlo capito)

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  3. è che quando guardo Scilipoti mi viene sempre in mente il Danny DeVito dell'Uomo della Pioggia, da lì devitico, che anche se non c'è dovrebbe proprio esserci nel dizionario ;)

    Macchè cultura, a me servirebbe una coltura enorme, che le mie son braccia davvero rubate all'agricoltura ^_^

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  4. Era solo un modo per dire che vi ho colto una miscellanea di generi con un'apparente prevaricazione della commedia sulla tragedia, ma con comunque un'alternanza di posizionamento del piacere dall'una all'altra.

    Che poi Goldoni significhi profilattici e Shakespeare si traduca in Scuoti Lancia, è una pura coincidenza che mi è venuta in mente solo ora.

    Comunque, quando fate sesso anale usate sempre il preservativo, che ci sono i batteri (l'ha detto anche Giovanardi [assieme a una pletora di stronzate immani, sia ben chiaro. Mi sa che ci si potrebbe fare un post]).

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  5. Io avrei detto "devitiano".
    Scusa l'insistenza ma visto che tu sei così perfettino con gli altri...

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  6. Ma ci mancherebbe, critiche e suggerimenti sono sempre bene accetti (ma se vuoi scrivere devitiano ti apri il tuo cazzo di blog e ci scrivi tutti i fottuti neologismi che vuoi, qui si fa come dico io!) ;)

    Scherzi (!) a parte, mi trovo nella teoria d'accordo con te, ma devitico mi regalava una serie di suggestioni che non volevo perdere, roba mia naturalmente e che quindi mica si trasmette via web.
    Comunque c'entravano il Levitico, la devitalizzazione di un dente, i Simpson e altre cose che potrei dire, ma dopo dovrei ucciderti.

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  7. Scusa se insisto ma ti trovo interessante e allora ti torturo volentieri, volevo dire che non è certo sensato scrivere una roba impropria perchè " mi regalava una serie di suggestioni che non volevo perdere, roba mia naturalmente e che quindi...".
    Cioè io sarei libera di scrivere "pò" perchè mi regala suggestioni che ecc ecc.
    Non sarebbe più semplice e voloce dire che hai sbagliato ;-)?
    In fondo sai usare la ligua in maniera straordinaria (magari anche in ambito sessuale, io non nego mica i riferimenti sessuli) e sei in grado di creare grandi suggestioni anche usando la maniera corretta, non occore che ti "forzi" a sbagliare ;-)...
    Riguardo al consiglio di aprire un blog tutto mio: meglio rompere le scatole a te, e poi io non ho la fantasia che hai tu!

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  8. Insisti pure, e poi manco è una tortura che di dimostrare che ho ragione ne faccio volentieri a meno (poi ho ragione e insisto per averla, ma ne faccio volentieri a meno).
    Beh, parlando di neologismi mi verrebbe da sindacare sull'improprietà di ua regola applicata a una parola che non esiste e che non si pone in sovrapposizione di significato con un'alternativa esistente. Pò è sbagliato perché lo vuoi usare al posto di po' che esiste ed è corretto. Devitiano non esiste, così come non esiste devitico. Il suffisso -iano si riferisce proprio a ciò di cui abbiamo bisogno (manzoniano, kafkiano). il suffisso -ico ha delle radici più scientifiche, ma comunque viene utilizzato per aggettivare dei sostantivi (fobico, fotonico).
    Adesso, hai ragione tu nel dire che -iano sarebbe stato più in linea col sentore comune e con l'uso più diffuso di tale suffisso.
    Il suffisso -ico c'è, è usato, ma probabilmente non ci sono dei casi di utilizzo simili ha quello che ho forzatamente adottato.
    (Sto comunque stressando goo.. la memoria per trovare un precedente)
    A fronte di questo mi sono permesso di ritornare sui miei passi e correggere il post, che non si dica che non sono umile.

    Quella cosa dell'usare bene la lingua è una voce che ho messo in giro io...

    (però è vera ;) )

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È l'ultima cosa che potrete dire in questo posto. Pensateci bene prima di scrivere le solite cazzate...