Qual è l’istante esatto in cui si diventa sé stessi?
Quanto un luogo ci appartiene e quanto noi apparteniamo a esso?
Dove finiscono i ricordi, le facce, i sogni della nostra giovinezza?
Da dove arriva quella malinconia che da sempre ci impregna i vestiti come il più tenace degli odori?
Se siete cresciuti nel villaggio Anic di Ravenna negli anni settanta, se siete figli dei lavoratori del petrolchimico, se quei giorni scanditi dalle esalazioni vi graffiano l'anima per poi accarezzarla, se siete lì o ve ne siete andati, insomma se siete questi qui, Davide Reviati parla di voi.
Se siete tutti gli altri, invece, l'autore ravennate mette a vostra disposizione il suo sguardo e la sua memoria (o forse l'invenzione della sua memoria raccontata dal proprio sguardo) per spiare con discreta indiscrezione le vite e i sentimenti di chi come lui ha abitato il quartiere, rincorso quei palloni, consumato le proprie speranze nell'illusione del null'altro.
Un romanzo di trasformazione più che di formazione.
Reviati scatta la foto di una sensazione, quella dell'infinità che avevano le estati quando eravamo bambini.
Sporca di china quel tempo dilatato, ne fissa i limiti con contorni neri di pece, lo appiccica alle nostre percezioni come se fosse lo sfondo in cui si muovono quei ragazzi.
Trasforma il tempo in spazio.
A ogni passaggio strappa rabbiosamente fogli dal calendario.
Riversa sulle pagine una finzione crudelmente vera. Inventa il reale.
Lo fa con sofferenza scientifica. Come se fosse un processo chimico, una formula da seguire col dito nel suo percorso arzigogolato.
Lo fa con una poesia ruvida, istintiva, onirica a volte.
Lo fa con un tratto ruvido, istintivo, onirico a volte.
Lo fa.
Lo fa incredibilmente bene.
La malinconia che ti si appiccica alle dita ha la consistenza vischiosa degli scarti di raffineria, te la senti addosso come un impegno mentre ti si insinua tra i ricordi, raffinazione, disalaggio, disoleazione: separa e confonde, fino a descrivere nell'estremamente puntuale l'inevitabilmente universale.
"La felicità non ha margini di miglioramento"
La rivelazione ci coglie all'improvviso, ancora accoccolati nel tepore delle nostre speranze.
Ci coglie all'improvviso e ci sbatte in faccia il fatto che non c'è redenzione.
Riscatto.
Non c'è il successo, ma solo l'avvicinarsi a esso.
Non c'è.
C'è solo la sindrome di Stoccolma verso un luogo, un'epoca, un microcosmo che noi, privilegiati, osserviamo come quei formicai trasparenti che vendono nei negozi.
Li guardiamo scavare la terra dura degli anni, delle lotte, di zoffcabrinigentilescirea, degli amori, dei dolori, della cattività.
Reviati narra tutto ciò con una crudeltà che in certi casi è confusionaria, tante omissioni, tanti buchi in quella storia, tante cose che non sappiamo. Intuiamo certe motivazioni, certe cadute, ma mai tutti i perché.
E' una tragedia silenziosa, talmente vera da necessitare il sogno per essere raccontata pienamente.
O forse è solo un sogno. E allora ci siamo sbagliati tutti, e i morti di sonno siamo noi.
Se siete tutti gli altri, invece, l'autore ravennate mette a vostra disposizione il suo sguardo e la sua memoria (o forse l'invenzione della sua memoria raccontata dal proprio sguardo) per spiare con discreta indiscrezione le vite e i sentimenti di chi come lui ha abitato il quartiere, rincorso quei palloni, consumato le proprie speranze nell'illusione del null'altro.
Un romanzo di trasformazione più che di formazione.
Reviati scatta la foto di una sensazione, quella dell'infinità che avevano le estati quando eravamo bambini.
Sporca di china quel tempo dilatato, ne fissa i limiti con contorni neri di pece, lo appiccica alle nostre percezioni come se fosse lo sfondo in cui si muovono quei ragazzi.
Trasforma il tempo in spazio.
A ogni passaggio strappa rabbiosamente fogli dal calendario.
Riversa sulle pagine una finzione crudelmente vera. Inventa il reale.
Lo fa con sofferenza scientifica. Come se fosse un processo chimico, una formula da seguire col dito nel suo percorso arzigogolato.
Lo fa con una poesia ruvida, istintiva, onirica a volte.
Lo fa con un tratto ruvido, istintivo, onirico a volte.
Lo fa.
Lo fa incredibilmente bene.
La malinconia che ti si appiccica alle dita ha la consistenza vischiosa degli scarti di raffineria, te la senti addosso come un impegno mentre ti si insinua tra i ricordi, raffinazione, disalaggio, disoleazione: separa e confonde, fino a descrivere nell'estremamente puntuale l'inevitabilmente universale.
"La felicità non ha margini di miglioramento"
La rivelazione ci coglie all'improvviso, ancora accoccolati nel tepore delle nostre speranze.
Ci coglie all'improvviso e ci sbatte in faccia il fatto che non c'è redenzione.
Riscatto.
Non c'è il successo, ma solo l'avvicinarsi a esso.
Non c'è.
C'è solo la sindrome di Stoccolma verso un luogo, un'epoca, un microcosmo che noi, privilegiati, osserviamo come quei formicai trasparenti che vendono nei negozi.
Li guardiamo scavare la terra dura degli anni, delle lotte, di zoffcabrinigentilescirea, degli amori, dei dolori, della cattività.
Reviati narra tutto ciò con una crudeltà che in certi casi è confusionaria, tante omissioni, tanti buchi in quella storia, tante cose che non sappiamo. Intuiamo certe motivazioni, certe cadute, ma mai tutti i perché.
E' una tragedia silenziosa, talmente vera da necessitare il sogno per essere raccontata pienamente.
O forse è solo un sogno. E allora ci siamo sbagliati tutti, e i morti di sonno siamo noi.
Lo metto in cima alla lista dei 'da leggere'. Se non è vero quello che hai scritto ....
RispondiEliminabeh, se non è vero ci sfideremo a duello come due veri gentiluomini
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