“Se il diciottenne si svegliasse. Di colpo. Una notte. Si alzasse.
Ed allo specchio si vedesse, con le paure, con le miserie dei suoi
futuri cinquantanni, morirebbe vomiterebbe.”
È da qualche giorno che mi rigiro tra le mani questo unastoria di Gipi.
L'ho letto la prima volta a Lucca, seduto su un plinto del padiglione a pochi metri da dove l'avevo preso, c'era confusione eppure non mi sembrava. Me ne sto rendendo conto solo adesso che lo sto scrivendo, che c'era confusione.
Quando l'ho comprato, allo stand Coconino, mi han detto che se glielo lasciavo potevo ripassare domenica e magari mi ci faceva sopra una dedica, forse un disegnetto, quelle robe lì, ma forse che ce n'eran già centinaia lì pronti col fogliettino del nome che usciva fuori.
Prima ho detto sì, poi c'ho ripensato, sono tornato indietro e ho chiesto se per favore me lo ridà che vorrei leggerlo adesso.
Poi è ricapitato. L'ho letto quella notte. Pioveva. Poi il giorno dopo me lo sono portato nello zaino tutto il giorno, mi piaceva sentirne il peso sulle spalle, e se avessi incrociato Gipi allora sì che me lo sarei fatto fare il disegnetto, la dedica o quelle robe lì.
Che poi Gipi l'ho incrociato davvero, ma gli ho più o meno solo detto grazie, qualche cazzata e grazie, niente dediche o disegnetti.
Ecco, adesso il libro è sul divano. Ogni tanto passo, ci sposto da sopra qualche gatto e apro una pagina a caso per respirarla. Il gatto non capisce.
L'ho riletto poi, ancora: credevo a un certo punto di aver trovato un passaggio che non funzionava, tipo che da lì in poi il racconto avrebbe smesso di piacermi. Non era vero.
Sto tergiversando, lo so.
È che non so come potrei parlarne.
Comunque ne hanno già scritto, bene, qui o qui o da qualche altra parte, e ancora ne scriveranno. Se cercavate una recensione leggetevi quelle.
Da parte mia vorrei solo che chiunque capitasse a passare di qui cogliesse il suggerimento di leggerlo. Per sé stesso e perché ne abbiamo bisogno tutti, di certe rivelazioni dico, ché la bellezza, quella bellezza che ti scava l'anima come le gocce pesanti di un temporale la terra, quasi sicuramente ci rende persone migliori. Quindi se vi va leggetelo per questo, per darci una speranza, come uomini dico, umani.
Perché è un libro meraviglioso.
Meraviglioso e crudele.
E crudele.
È una storia piccola, di quelle che succedono, che accadono inaspettate come certe valanghe originate dal ruzzolare di un sassolino. E come certe valanghe si ampliano, alimentandosi di sé stesse e del mondo attorno inerme che con esse precipita, così diventa un'altra storia, più grande, più vecchia. E ancora indietro, giù a valle, fino a diventare la storia di tutti.
E così va a finire che il titolo diventa un imbroglio da cui non ci sentiamo ingannati, un pretesto per metterci di fronte a uno specchio che riflette ogni nostro istante, ogni nostro viso, passato e futuro, allontanandoci da qualsiasi redenzione e mostrandoci per quanto umani siamo, irrimediabilmente.
Ed è una sofferenza incantevole, mirabilmente raccontata.
Sarebbe interessante fare un discorso tecnico sui vari stili, le tecniche molteplici con cui sono state realizzate queste tavole, tecniche che si mescolano all'interno della stessa pagnia, della stessa vignetta a volte, per mostrarci i vari piani di esistenza, di lettura. E sarebbe interessante anche parlare della padronanza del mezzo fumetto maturata da Gipi, di come ogni passaggio sembri realizzato così ad arte da faticare a volte a rimanere solo all'interno della storia. Come se a una mostra di quadri fossimo continuamente affascinati non solo dalle opere esposte ma anche dalle cornici, dai muri, dai pavimenti, dall'arredo. (che gliel'ho detto a Gipi 'sta cosa della padronanza del mezzo, e lui mi fa 'beh, son 50 anni che faccio fumetti' e io 'beh, c'è gente che li fa da di più e mica ce l'ha...')
E certi stacchi, certi cambi di pagina che ripeti due tre quattro volte, per gustarti di nuovo quell'emozione, quella scelta di regia strabiliante, per verificare che si rinnovi costantemente quella sensazione, e lo fa.
Sarebbe interessante, ma serve lucidità per queste cose e io mica ce l'ho.
C'è un momento per i protagonisti in cui tutto si ferma. Coincide esattamente con l'attimo immediatamente precedente al crollo, l'ultimo rimbalzo solitario del sassolino prima del fragore della valanga.
Sembra solo un momento, eppure tutto il racconto ruota attorno a quell'istante. Quel tempo cristallizzato in cui l'unica percezione è quella di vivere con un canovaccio uliginoso sulla faccia, in cui ogni repiro è fatica e la lingua che sfrega sul palato raccoglie solo il sapore di terra e polvere impastate.
Ecco, quando ho iniziato a scrivere questo post ero parecchio spaventato dall'arrivare a raccontare quel momento del libro, lo sono anche adesso.
Lo sono perché è così, perché prima è qualcosa che non va, magari poco, piccoli segnali qua e là, una telefonata che non serviva, la pizza bruciata nel forno, un pensiero da cui fatichi a uscire.
Poi arriva sempre un'ossessione: il lavoro, una donna, un'idea, la corrispondenza di guerra di un avo, non importa cosa. L'invasamento che trascini con te con la convinzione di gestirlo, fino alla realizzazione che sei tu a essere trascinato, gestito.
Ecco, poi ti svegli distratto, non te ne sei nemmeno accorto eppure qualcosa durante la notte si è rotto. Niente di evidente, cose piccole.
Però da quel momento tutto pesa diversamente, come se il regolatore della gravità fosse stato in qualche modo manomesso. E pesa sempre di più, e di più, fino a che non ti senti più in grado e distribuisci il peso sui polmoni, sugli occhi, sul cervello, a turno su tutti gli organi interni e vuoi solo smettere e che smetta. Perché non sei in grado.
E non è nemmeno il voler morire ma la disperata necessità di un'alternativa al vivere.
Parla di questo, anche.
Mi è venuta in mente mia nonna mentre leggevo questo libro. Non c'è un motivo vero.
Se dovessi dargli un merito però gli darei proprio questo: quello di emozionare, di rimestare nelle sensazioni che ci portiamo dentro fino a far emergere ciò che più percepiamo come la nostra essenza, il nocciolo attorno a cui si è sviluppato il frutto della nostra esistenza. Fino a ricordarcene.
E poi è anche unabellastoria.
(Ah, su i "sì" senza accento sorvoliamo, che se no mi tocca rivedere tutto il giudizio complessivo e sono pigro)
il mio libraio di fiducia credo ti adori.
RispondiElimina(però ho letto dodici e non m'ha detto granché)
io devo ancora leggerlo quindi non c'entro
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RispondiEliminasono arrivato su questo blog dopo che Gipi ha messo il link su fb... ho letto qualche post e mi sono iscritto subito, non mi voglio perdere niente!!!
Eliminacambierai idea, non preoccuparti...
EliminaPensa che io ho sulla mia copia di "S." di Gipi una dedica a mia nonna che aveva festeggiato il suo 21° compleanno sotto le bombe. Anche lei nei suoi ultimi giorni era tornata indietro, a tempi che forse le erano più familiari di quelli attuali: Lei lo ha fatto in maniera inconsapevole, credo che molti di noi lo farebbero invece più che consapevolmente viste le brutture a cui siamo costretti al giorno d'oggi.
RispondiEliminaè che tendenzialmente la natura ci orienta verso il futuro pur essendo esseri votati al presente. Il dramma è che spesso ci troviamo nel presente sbagliato.
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