Ieri mi ero messo a scrivere un post sull’ultimo cd di Caparezza. Faceva più o meno così:
“Non mi capita spesso di parlare di musica, non solo in questo posto ma anche di là, nel mondo delle persone che camminano e parlano.
Non mi capita perché non so farlo, mi mancano proprio le basi, non so suonare nemmeno il kazoo, tecnicamente non ne capisco niente e di fatto posso solamente bello, brutto, mi è piaciuto non mi è piaciuto.
Lo stesso discorso potrei farlo anche per l’arte. Non ne parlo, non so disegnare nemmeno gli omini del gioco dell’impiccato, tecnicamente non ne capisco niente e mi limito a bello brutto questo lo so fare pure io.
(che su ‘sta cosa di questo lo so fare anch’io, Bruno Munari correttamente diceva che al limite bisognerebbe dire che questo lo so rifare, perché qualcuno per primo l’ha già fatto, ed è questa la potenza dell’arte e dell’artista, quella di arrivare prima del resto. Che poi tutto si rivela spesso un discorso di troppo presto o troppo tardi, ché l’arte è arte ma la famosità dell’arte è anche discorso di culo a volte! [famosità non credo esista, fatevene una ragione]
Comunque, tutta questa introduzione per dire che in questi giorni sto ascoltando il nuovo album di Caparezza, Museica. (lo sto ascoltando nel senso che ho comprato il cd. Casomai ci fosse qualcuno della polizia postale che legge…)”
Poi mi sono interrotto.
Mi sono interrotto perché non ho voglia di scrivere. Ma non di musica, non ho voglia di scrivere niente.
C’è una canzone in questo disco numero 6, si intitola China Town, da leggere china, in italiano, inchiostro, penna, foglio, quelle robe lì.
È una canzone potente, malinconica ed evocativa. Parla di idee, di parole, di quel percorso immaginifico che va dal pensiero alla punta della penna.
Mi è servita a ricordarmi quando scrivevo poesie dietro agli scontrini dell’autogrill. C’era sempre qualcosa che rimestava in quell’inchiostro, quasi come se le parole fossero già state presenti sulla carta, come se gli alberi si fossero nutriti dei pensieri interrotti dei morti sotterrati, e ora, dopo essere morti loro stessi, sacrificati in quel rito di transustanziazione che li traghetta da foglia a foglio, traspirassero in rilievo ogni lettera, come dermografia sulla pelle, e la china era solo uno strumento per ripercorrerne il significato, un esercizio di ricalco che prevedeva la stessa meticolosità dello scorrere della ruota numerata di una cassaforte.
E ora boh, probabilmente sono anni che non prendo una penna in mano per scrivere qualcosa di mio.
Non ho voglia di scrivere, però una cosa su questo album vorrei dirla: è fastidiosamente intelligente.
Sì, accantonati gli argomenti divertentemente seri del precedente, il cantautore si racchiude in una dimensione più intimista, meno universale. Il museo, l’ispirazione che va da opera d’arte a canzone, il vagare tra le impressioni ricavate dai quadri di questa personale collezione, tutti pretesti per raccontare non più l’umanità ma l’uomo.
Quasi in maniera sconsolata, come se una speranza di massa fosse tragicamente fallita e occorresse ripiegare sull’individuo, ripartire da lì, in una dimensione ridimensionata, meno corale, riaddossando al singolo la responsabilità di essere, senza delega, mediando qualunque appartenenza per ricondurre ogni decisione al disegno unico di ognuno.
Dicevo, un disco fastidiosamente intelligente. Di quelli che ascolti e pensi: questo avrei voluto essere capace di averlo fatto io (c’è di sicuro un italiano migliore per dirlo, ma in quel momento lo pensi così…)
Un lavoro che musicalmente va abbondantemente oltre il rap, e che anzi è più un’opera rock che spazia tra metal e ballate, rimescolando le impressioni, appunto come nel percorso attraverso differenti sezioni di un museo.
E che soprattutto straborda di idee, di invenzioni, rimandi, citazioni, dettagli, riferimenti.
Cioè, per dire, in Giotto Beat si parla di prospettiva: la prospettiva inventata da Giotto ma anche quella che dovremmo inventarci noi per sopravvivere a questo decennio, ma parla anche di G8, la musica però è un beat, con i coretti tipici anni ’60, ma i Coretti sono anche un’opera di Giotto, ma le sonorità della canzone sono costantemente inframezzate da suoni 8 bit, e via dicendo… E questo è solo un esempio, c’è di meglio.
Canzoni crudeli nei suoni e nei concetti come Argenti Vive (dove Filippo Argenti, vicino di casa di Dante immerso dal poeta nel fango dello Stige nel girone degli iracondi, prende la parola e risponde al Sommo a modo suo), critiche come Mica Van Gogh, profonde come Fai da tela, sconsolate come Compro Horror.
È un disco che si tende ad ascoltare sempre da un’angolazione differente, quasi fosse un quadro cubista che raccoglie in sé tutte le viste possibili su di un soggetto.
Tra l’altro, ed è sicuramente un merito, questo non è un disco di protesta. In un momento storico in cui la politica tende ad essere solamente distruttiva, e ci si abbarbica sulle facili strategie della polemica urlata, Caparezza (che non è mai troppo politico) cerca invece di dare una visione personale, critica ma non sragionata, più a favore di qualcosa che non contro.
E mostra. Mostra ciò che vede da lì (Dalì), il suo punto di vista.
E noi che usiamo il nostro punto di vista per osservare il suo.
Come in un quadro di Magritte.
Ci scrissi un post su Caparezza... non ricordo più nemmeno in quale blog...
RispondiEliminaAd ogni modo, oltre ad averlo sempre stimato come artista, è proprio somaticamente che mi ispira simpatia a prescindere, una sorta di automatismo. Non sto parlando di attrazione fisica, parlo proprio di preferenza ancestrale. I tratti, i colori, il genere di persona... mi fa desiderarne l'amicizia a prescindere. Peccato che in vita mia, credo per lo stesso inspiegabile e inconscio automatismo, evidentemente in quel genere di persone con quei tratti somatici ecc... io non ispiro la stessa simpatia, anzi, credo che il mio tipo di persona, d'istinto, gli stia proprio sul cazzo.
Saluti.
Ciao Chiara, grazie per il tuo contributo.
EliminaProbabilmente il tuo non ispirare simpatia a quel genere di persone dipende dal fatto che quel genere di persone sono esseri umani.
Ti consiglio di provare con la talpa barbuta del Mississipi, sono esserini tanto affabili e hanno un grado di empatia pari a barattolo di zuppa Campbell. Credo che a loro risulterai simpatica immediatamente.
Ciao
(e comprati il cd, che se vai lì col cd masterizzato per forza che poi un cantante non ti prende in simpatia...)
Ti mancheranno forse le basi per parlare di musica ma una buona recensione l'hai scritta comunque, mi pare (di quelle che leggi e pensi: ecco come un disco fastidiosamente intelligente può essere intelligentemente recensito anche senza ricorrere a tecnicismi per addetti ai lavori)...
RispondiEliminala recensione? no beh, la recensione l'ho copiata...
EliminaBasta che sia una copia per uso personale e non dovresti avere problemi (essendo l'autore)
Eliminail famoso distorto d'autore
EliminaSì... effettivamente il problema è l'essere umano.
RispondiEliminaOk, Mauro, comprerò il cd originale della talpa barbuta del Mississipi, anche se forse è meglio fare conoscenza direttamente col barattolo di zuppa Campbell, ammesso che sia piena, perché vuota temo diventi scontrosa anche lei.
Grazie comunque farò tesoro... La posta del cuore di Mauro è sempre una garanzia!
se il problema è l'essere umano la soluzione è il non essere umano... mi pare evidente.
EliminaCiao, scorpioncina82
Ho chiesto, dice che la talpa barbuta si è estinta nel '92...
RispondiEliminaecco, vedi... non c'è speranza!
in realtà una speranza c'è, ma è meglio non accennarne qui sul blog... ti faccio sapere.
EliminaSe vuoi un altro artista rap che va oltre il rap usuale ti consiglio Murubutu, non so se lo conosci, ti dico solo che nella vita è professore universitario. E' da poco uscito il suo ultimo album.
RispondiEliminaDagli una possibilità, cerca "Anna e Marzio" non te ne pentirai.
Francesco
ieri a Milano ho mangiato una pizza molto buona...
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